Tutto è cambiato, anche il turismo. O, meglio, fare turismo. Nonostante la stagione sia andata, in generale, non male è proprio la maniera di ospitare che deve modificarsi radicalmente aprendo le porte all’innovazione e alla cultura dell’accoglienza ecosostenibile e responsabile. Racimolare quanti più soldi è possibile rappresenta il passato. Il futuro guarda verso la rigenerazione del territorio nel rispetto della natura e dell’ambiente.
Roma – Il turismo post-pandemia, cambia o muore. Ormai lo sappiamo tutti che l’infezione globale ha provocato cambiamenti epocali in tutti i settori della società. Lo sappiamo talmente bene che, nostro malgrado, è diventato quasi un refrain da recitare a memoria. Uno dei settori che più di tutti hanno subito la crisi è stato il mercato turistico.
L’Europa rappresenta il 51% di quello mondiale secondo i dati UNWTO, United Nations World Tourisme Organization, l’Organizzazione mondiale del turismo (OMT). Quest’ultima è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite con sede a Madrid che si occupa del coordinamento delle politiche turistiche e promuove lo sviluppo di un turismo responsabile e sostenibile.
Gli effetti devastanti della pandemia hanno provocato il crollo verticale della domanda, col rischio di perdere dai 6,6 agli 11 milioni di posti di lavoro. Una situazione molto critica, da cui potrebbe determinarsi, però, una svolta. Nel senso che la crisi sanitaria potrebbe essere l’occasione da cogliere per un ripensamento complessivo del modello turistico come lo abbiamo conosciuto finora. Al fine di renderlo più innovativo, ecosostenibile e culturale.
Questo è un aspetto fondamentale perché l’industria del turismo si è basata principalmente sulla crescita economica, tesa volgarmente a racimolare quanti più soldi possibile. In questo modo non ha mai ascoltato gli inviti a considerare ambiente, società e cultura prediligendo, di fatto, una visione meramente consumistica, perché più remunerativa nell’immediato.
Un recente studio del Centro comune di ricerca (JRC) ha evidenziato gli effetti devastanti che la crisi pandemica ha avuto in termini occupazionali. Il Joint Research Centre è un’appendice della direzione generale della commissione europea, che dispone di sette istituti di ricerca dislocati in cinque Paesi membri dell’Unione Europea: Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Spagna. Il centro fornisce sostegno scientifico e tecnico alla progettazione, allo sviluppo e all’attuazione ed al controllo delle politiche dell’Unione Europea.
I Paesi che più hanno sentito la crisi sono quelli in cui più sostanzioso è il ricorso ai lavoratori stagionali. Fra questi, Croazia, Malta, Cipro, Slovenia, Grecia, Austria, Spagna, Italia, Francia, Portogallo, Belgio, Paesi Bassi e Svezia.
Un clima molto incerto che si sta riversando sul futuro delle giovani generazioni. Nello studio emerge che questa situazione va ad intaccare l’intera sfera sociale, pubblica e privata della nostra vita e del nostro benessere. Tuttavia, è chiaro che la crisi improvvisa, duratura ed ancora imprevedibile della pandemia, dovrà forzatamente riportare l’attenzione dei decisori politici in primis, ma anche dei cittadini su concetti quali sostenibilità, ambiente e futuro.
Parte essenziale del nuovo paradigma è il patrimonio culturale, fondamentale per il rilancio dell’economia anche attraverso la rigenerazione di territori urbani e suburbani. Tutto questo è particolarmente vero per l’Italia i cui territori sono più a rischio a causa dell’eccessivo consumo del suolo, della calamità naturali, dell’impatto del cambiamento climatico e delle esondazioni di fiumi.
La ricerca invita, quindi, le Istituzioni comunitarie e nazionali a soluzioni innovative, ripensando sia il concetto di rigenerazione che di governance.
Ce lo stanno dicendo da ogni parte che la situazione è critica e che bisogna darsi una mossa. Ma cosa diavolo stiamo aspettando, la fine del mondo? Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.