L’UNIONE EUROPEA GABBIA PER I LAVORATORI.

Una riflessione sulla Comunità europea

Negli ultimi anni la discussione in merito ai presunti benefici economici scaturiti dalla persistenza o meno dell’Italia all’interno dell’Unione Europea ha guadagnato una sempre maggiore centralità nei programmi elettorali dei vari partiti. Almeno così sembra.

Al contempo risulta estremante ironica, per non dire deprimente, la strumentalizzazione antieuropeista impugnata dalle grandi compagini politiche, nominalmente anti-sistemiche, come Movimento 5 Stelle o Lega nel periodo propagandistico, salvo poi ritornare a una visione moderata e di compromesso immediatamente dopo la tornata. Lamara ironia del caso affonda le sue più profonde radici nella stessa ipocrisia su cui poggia la debole retorica dei due partiti più votati d’Italia.

Il primo dei due si è reso più volte partecipe di varie gaffe in merito al discorso Europa, ed è stato a più riprese suscettibile a personalismi, che di fatto hanno creato confusione e incomprensione nell’elettorato pentastellato. Il secondo ha invece preferito intraprendere la strada della rimozione politica. Il bagaglio ideologico a cui guarda la Lega è da sempre e indissolubilmente legato agli obiettivi politici di medio termine. Così come la retorica scissionista e antimeridionalista era legata alle esigenze dell’industria del Nord Italia, che spingeva per un ulteriore livellamento della forza lavoro in seguito al tracollo delle lotte operaie; anche rispetto alla retorica sull’Unione Europea, e inesorabilmente sui migranti, la direzione del partito di Salvini appare vincolata a logiche di potere.

Infatti, il castello di carta su cui si regge, sempre più precariamente, l’ipocrisia della politica si scontra con la realtà dei fatti: è impensabile concepire una fantomatica Terza Repubblica fino a quando saranno presenti in Costituzione elementi come il Fiscal Compact.

Sostanzialmente, non si può non costatare come i principali oppositori dell’Unione Europea siano oggi i suoi principali interlocutori. La motivazione è di facile lettura. La politica nazionale, intesa nella sua più romantica interpretazione, non può più essere pensata come espressione del volere autonomo dello Stato, dunque, della propria popolazione. L’esecutivo nazionale sta maturando sempre più velocemente quella metamorfosi che inevitabilmente lo condurrà a diventare mera cinghia di trasmissione del potere economico e finanziario comunitario. Qualsiasi sia il colore e l’appartenenza ideologica, senza una formale accettazione della supremazia comunitaria rispetto a quella statale, nessun governo potrà ritenersi stabile.

Tale ricorrente teatrino tra Unione Europea e partiti italiani ha però nei salariati la sua maggiore vittima. Appare indubbio che dopo il trattato di Maastricht del 1992, e successivamente con l’introduzione dell’Unione monetaria a partire del 1998, l’assetto economico continentale sia cambiato. Appare, altresì, che anche lo stile di vita dei lavoratori comunitari sia mutato, evidentemente in peggio. Rimanendo in una retorica acchiappa voti sorge logico pensare che le accuse della classe politica verso le articolazioni comunitarie, siano sostanzialmente dei palliativi indirizzati verso i problemi superficiali di questo sistema, e lascino appositamente incancrenire le reali incongruenze per assicurarsi la stabilità governativa. La stabilità governativa in cambio della fedeltà alla Banca Centrale Europea, il patto su cui si fonda la democrazia del terzo millennio.

L’appartenenza al Club Monetario ha come presupposto, velato ma non troppo, una sempre maggiore oggettivazione del lavoratore. Infatti, I due pilastri fondamentali dell’Unione Monetaria prevedono che ogni stato membro mantenga un’inflazione inferiore o uguale al 3% e un rapporto deficit/PIL del 60%. Questi vincolanti dettami rendono la BCE una banca non di ultima istanza, dunque non stabilizzatrice. Una banca non stabilizzatrice adotta un comportamento principalmente protettivo, austero. Anche durante una grande crisi (come quella che ancora pende sul nostro futuro), l’obiettivo di non avviare un percorso inflazionistico – dunque la rinuncia a stampare carta moneta- rimane il principale.

Ogni stato membro deve percorrere il cosiddetto sentiero di stabilizzazione, ovvero: “Il sentiero di stabilizzazione condurrà a quel luogo geometrico di punti con la stessa proprietà e sarà dato da tutti i punti di tangenza di curve di trasformazione e di malessere.” Questo spazio geometrico indicato come luogo di massimo vantaggio per gli stati, in realtà, implica lo stazionamento in una condizione di disoccupazione naturale. Se prima della rinuncia alla moneta nazionale un Paese Wet – dove a una politica di Dumping sociali viene preferita una maggiore inflazione – avrebbe avuto la possibilità di optare per una politica inflazionistica per salvaguardare il posto dei lavoratori e tutta la sfera dei servizi, con l’avvento dell’Unione monetaria ciò non potrà più avvenire. Il Pareggio di bilancio non è altro che l’applicazione legislativa di un concetto economico che pone nell’austerità il suo principale fondamento.

Tra il 2013 e il 2015 l’introduzione di misure quali il Fiscal Compact e le linee guida sull’applicazione del PSC – con lo scopo di rafforzare il legame tra riforme strutturali, investimenti e responsabilità di bilancio – hanno gettato le basi per l’assorbimento delle nuove norme quali Il Fiscal rules; Saldo netto strutturale; Obiettivo di medio termine; Austerità espansiva; Previsione di un vincolo permanente sulla politica di bilancio.

Non potendo più correre ai ripari tramite politiche monetarie, lo Stato, sarà obbligato a optare per una politica di dumping sociale: dunque tagli nel pubblico (Sanità; Istruzione; Infrastrutture), con una corrispettiva svendita al privato (Grecia docet). Emerge, dunque, chiaramente il carattere conservatore della BCE, il cui obiettivo è mantenere il grado di inflazione costante, prediligendo la disperazione di molti per il bene di pochi – di pochissimi –, ovvero dei grandi monopoli europei. Dunque, per sillogismo, possiamo identificare la BCE come pura emanazione degli interessi dell’oligarchia finanziaria mondiale.

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