La moda diventa sostenibile ma inquina ancora molto e sfrutta i lavoratori

Il comparto ha avuto grossi problemi con la pandemia ma dal punto di vista etico deve percorrere ancora un lungo cammino. Stessa cosa per la sostenibilità: il settore produttivo inquina ancora il 20% delle acque di tutto il mondo. Per non parlare degli scandali sullo sfruttamento del lavoro di minori e prigionieri.

Ci sono delle fasi della storia in cui alcune locuzioni irrompono con tale forza nel linguaggio comune da diventare un refrain, quasi martellante. Una di queste è sostenibilità, di cui spesso si parla a sproposito. Anche la moda non è sfuggita a questo trend. Sì, proprio la moda: la seconda industria più inquinante dopo quella petrolifera e che, molto spesso, non ha rispettato le condizioni di sicurezza ambientale ed i diritti dei lavoratori.

Poiché ogni settore dell’economia deve fare i conti con la salvaguardia del pianeta – un tema che con gli anni è diventato molto sensibile per l’opinione pubblica – si è iniziato a parlare di moda etica.

Non una scelta propriamente etica, piuttosto una presa d’atto che le richieste di una buona parte della clientela rivolgevano verso quei capi d’abbigliamento che rispettavano sia l’ambiente che la tutela del lavoro. Addirittura si sono sviluppate alcune tendenze che sembrano simili ma che manifestano, invece, marcate differenze.

La prima, la moda sostenibile, detta anche eco-fashion, attraverso la quale i marchi del settore cercano di avere il minore impatto ambientale possibile. Ambiente che negli ultimi anni è stato devastato lunga tutta la filiera del settore: dalla realizzazione del filato alla tintura, dal finissaggio, cioè ai trattamenti compiuti sul capo per migliorarne le caratteristiche, fino al suo smaltimento a fine vita.

La moda etica, invece, tende lo sguardo a tutti coloro che sono impegnati nella filiera produttiva, dall’inizio alla fine. Quindi retribuzioni eque e condizioni dignitose dei lavoratori. Quest’ultimo è un tema che parte da lontano. Riportiamo solo alcuni esempi: il marchio Levi’s, tanto amato dai giovani anche quelli controcorrente, non avrebbe pagato i propri dipendenti in modo equo nel 1992.

Due anni dopo è stata la volta del colosso dell’abbigliamento Nike che avrebbe sfruttato il lavoro minorile per confezionare alcuni dei suoi prodotti più venduti, nonostante avesse finanziato una campagna proprio contro il lavoro dei giovanissimi. Nel 1997 è toccato ad Adidas, che avrebbe sottoposto i prigionieri politici in Cina ai lavori forzati in cambio di quattro soldi.

Quest’ultimi avvenimenti pare si siano verificati col fenomeno della fast fashion, ovvero una moda da passerella con materiali low-cost e a ritmi produttivi elevatissimi. In questo circuito spesso si sarebbero inserite aziende in odore di camorra o direttamente o per interposta persona.

Solo dal punto di vista ambientale i dati sono terrificanti: il 20% dell’inquinamento delle acque mondiali è dovuto alla produzione di vestiti e meno dell’1% del materiale usato per produrre abbigliamento viene riciclato.

Senza dubbio pare che il consumatore sia stato messo al centro del processo, fornendogli tutte le informazioni sul prodotto finito.

Inoltre, le aziende del settore investono molto in progetti umanitari tendenti a incentivare lo sviluppo economico di comunità del terzo mondo.

Per questo restyling sostenibile non mancano certificazioni rilasciate da entità locali o internazionali che garantiscono la provenienza e la natura dei materiali impiegati. Ne citiamo alcune, per dovere di cronaca:

  • GOTS (Global Organic Textile Standard) riguarda la produzione e la lavorazione delle fibre organiche, con l’obiettivo di verificare la totale assenza di sostanze chimiche non conformi ai requisiti base sulla tossicità e sulla biodegradabilità stabiliti dai governi;
  • OCS (Organic Content Standard) attraverso cui viene validato il contenuto dichiarato dalle aziende in merito alla provenienza delle fibre naturali da agricoltura biologica ed alla loro tracciabilità lungo tutta la filiera produttiva;

  • GRS (Global Recycle Standard) è una certificazione applicata sia ai prodotti che alle aziende che utilizzano materiali riciclati. In Italia è competenza dell’ICEA, Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale.
  • FSC (Forest Stewardship Council) è il certificato specifico per i prodotti di derivazione forestale, legnosi e non, attestante la provenienza dei prodotto da foreste gestite nel rispetto dell’ambiente e dei lavoratori ivi impiegati.

Ben venga tutto, purché sia rivolto al benessere individuale e collettivo. Fa solo pensare, e tanto, il fatto che chi ha distrutto l’ambiente, oggi si erge a paladino della natura.

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