Montagne di rifiuti derivanti da abbigliamento e calzature finiscono in una delle discariche più grandi del mondo che si trova in Cile. Mentre i grandi della terra sono impegnati nel G20 e in altri incontri al vertice migliaia di tonnellate di rifiuti rischiano di avvelenare l’ambiente più di quanto non lo sia già. Pensiamoci quando usciamo per fare shopping.
E’ vero che ormai non ci possiamo meravigliare più di nulla di fronte all’agire inconsulto dell’uomo, ma è veramente indegno, sconfortante e penoso quello che c’è nel deserto di Atacama, in Cile. Esiste una vera e propria montagna di vestiti, che poi non sono altro che scarti dell’industria della moda.
Il Cile da anni ormai è diventato un polo di attrazione e di raccolta per l’abbigliamento di “seconda mano“, quello che non viene venduto e che è prodotto in Cina e in Bangladesh. Da qui poi fa rotta per l’Europa, l’Asia e gli USA ed infine giunge in Cile, dove viene rivenduto in tutta l’America Latina. Sembrerebbe un normale ciclo commerciale se non presentasse due aspetti esecrabili.
Il primo è l’utilizzo di manodopera a basso costo, che svolge il proprio lavoro in assenza delle minime condizioni igienico-sanitarie, e con turni massacranti: gli agnelli sacrificali per soddisfare la domanda del primo mondo, questa sì che è civiltà! Il secondo aspetto disdicevole è il fatto che le conseguenze sull’ambiente sono assai negative.
Il sito RaiNews.it ci ha informato che nel Nord del Cile, nel porto di Iquique, nella zona franca di Alto Hospicio, ogni anno arrivano circa 59mila tonnellate di vestiti. Una parte viene esposta nei negozi delle maggiori città, un’altra viene rivenduta ai Paesi confinanti.
Un calcolo approssimativo, ma che si avvicina molto alla realtà, ha stabilito in almeno 39mila tonnellate di indumenti che non sono stati venduti e finiscono come scarti in quelle che sono diventate vere e proprie “discariche della moda“.
Ormai lo sanno pure i bambini delle elementari che si tratta di rifiuti non biodegradabili poiché ad alto contenuto di sostanze chimiche, spesso dannose. Sempre gli stessi bambini comprendono benissimo l’effetto deleterio sull’ambiente di questo vero e proprio lerciume.
Per questi motivi non vengono accettati negli impianti municipali. Un modo per lavarsi la coscienza, mettendo la polvere sotto il tappetto: prima o poi viene fuori. Un rapporto dell’ONU del 2019 ha evidenziato che la produzione globale di vestiario tra il 2000 ed il 2014 si è raddoppiata.
Inoltre l’industria è responsabile del 20% dello spreco totale di acqua a livello globale. Per produrre un paio di jeans e poi sfilare per le vie delle città, orgogliosi di indossare l’ultimo capo alla moda, ci vogliono ben 7.500 litri d’acqua, sai che umidità!
Infine, il rapporto prosegue con le note dolenti: la produzione di abbigliamento e calzature contribuisce all’8% dei gas serra globali e che ogni secondo una quantità di scarti della produzione tessile della consistenza di un camion della spazzatura viene seppellita o bruciata.
Sarebbe opportuno pensarci un attimo, prima di acquistare un indumento o un paio di scarpe: si favorisce lo spreco di acqua e la produzione di gas serra.
Non è che bisogna andare in giro scalzi e svestiti, ma un po’ di parsimonia ed accortezza non farebbe male. Mentre i potenti della Terra organizzano il G20 e la COP26, il deserto cileno continua a ingrossarsi di rifiuti. Meditate gente, meditate.