Soprattutto all’economia e all’intero indotto degli allevamenti con gli ovvi risvolti sulla vendita della carne. Ancora in piena pandemia quest’altra iattura non ci voleva. Dunque gli allevatori chiedono ristori ma al posto di tendere la mano non sarebbe meglio ripensare al nostro modello di sviluppo e al nostro modo di produrre per arginare questa tipologia di malattie?
Poiché al peggio non c’è mai fine, come si dice in questi casi, oltre al Covid con tutte le conseguenze che sappiamo, è arrivata pure la peste suina ad esacerbare la già grave situazione. Sono stati riscontrati, infatti, alcuni casi su cinghiali in Piemonte e Liguria dopo quelli in Germania e Belgio. E non è finita mica qui, perché le previsioni dell’impatto sull’economia sono catastrofiche.
La peste suina è una delle più grandi preoccupazioni in campo zootecnico, tant’è che la sorveglianza è effettuata da tempo dall’Istituto Zooprofilattico di Torino, che ogni anno mette sotto osservazione oltre 200 campioni di suinidi. Il Ministero della Salute ha inserito nella zona infetta da peste suina africana ben 114 comuni (78 in Piemonte e 36 in Liguria), nei quali sono state vietate diverse attività.
Con l’ordinanza firmata da Ministro della Salute Speranza e da quello delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali Patuanelli, è scattato il divieto di ogni attività venatoria, salvo la caccia selettiva al cinghiale, ammessa come strumento per ridurre la popolazione. Inoltre, nell’area considerata, sono state vietate altre attività come la raccolta di funghi e tartufi, la pesca, il trekking, il mountain bike ed altre forme di interazione diretta o indiretta con cinghiali infetti.
Il focolaio che si è esteso in Piemonte ha destato molta preoccupazione tra gli allevatori locali. Si tratta di oltre 1.600 aziende con oltre 1,2 milioni di capi che producono un fatturato che l’anno scorso è stato di oltre 400 milioni di euro. Alcuni Paesi, Cina, Giappone, Taiwan e la Serbia hanno già disposto il blocco dell’import di carni suine italiane e si teme addirittura un embargo.
Secondo i dati diffusi da Confagricoltura si tratta di un giro d’affari di carni esportate intorno a 1,7 miliardi di euro annui, di cui più di 500 milioni verso i Paesi extraeuropei. Il danno all’export è stato quantificato in almeno 20 milioni di euro per ogni mese di blocco delle esportazioni.
Non è solo il comparto agro-zootecnico a patirne i danni ma anche quello turistico. Il lockdown di 6 mesi nei boschi per arginare la diffusione del virus suino, previsto dall’ordinanza del Ministero della Salute, avrà delle ripercussioni sull’economia di una zona caratterizzata da un turismo attrattivo in un ambiente attorniato da mare e montagne in una simbiosi quasi perfetta.
La legge 157/1992 – Norme per la protezione della fauna selvatica – non è più sufficiente al contrasto della proliferazione dei cinghiali, per mancanza di personale e, dunque, di controlli. Tant’è vero che li vediamo tranquillamente girovagare in città, ai margini delle strade e tra i cassonetti dei rifiuti.
I danni economici per tutte le attività coinvolte sono evidenti tanto che si parla di chiedere al Governo centrale adeguati ristori, previa stima delle perdite economiche e dei mancati redditi. La preoccupazione è tanta, comunque la Confederazione Italiana Agricoltura ha ribadito che le misure di bio-sicurezza degli allevamenti hanno standard molto elevati, che saranno ancora più rafforzati nei giorni a venire per una maggiore tutela delle aziende zootecniche.
Questa è lo stato dell’arte di una situazione venutasi a creare in un momento in cui la nostra attenzione è tutta concentrata sull’altro famigerato virus, il Covid-19. La musica è sempre la stessa, anche quando cambia l’orchestra: si chiedono ristori e sovvenzioni, che, per carità, nessuno vuole negare. Ma sono solo provvedimenti tampone. La soluzione, forse, può essere che la diffusione dei virus dovrebbe farci ripensare al nostro modello di sviluppo e al nostro modo di produzione. Ma da questo orecchio sembrano tutti sordi.