Le criminalità organizzate italiane e quelle straniere, non meno pericolose, si sono spartite l’intero territorio settentrionale della Penisola. Il lungo processo di infiltrazione malavitosa nel tessuto sociale e industriale sano è iniziato negli anni ’70 e non si è più fermato. Troppe sono le aziende in odor di mafia e ancora troppo pochi gli imprenditori che denunciano. Il risultato finale è l’impoverimento della società civile.
Roma – I tentacoli della mafia si allungano ovunque. Tutte le attività economiche “da Trieste in giù” sono interessate ma neppure Bolzano o Belluno sono risparmiate, eppure moltissima gente ancora oggi non comprende che cosa sia la mafia o preferisce non sapere.
Per questo motivo non è facile parlare di mafia e ciò comporta che talvolta le persone che hanno scambi commerciali o lavorano in aziende interessate da infiltrazioni criminogene non ne sono consapevoli.
Paolo Borsellino, non a caso, diceva sempre: “…Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene…”.
Nell’ultimo anno, a causa del Covid-19, interi settori economici hanno vissuto la più pesante crisi economica del dopoguerra. Il settore della ristorazione in primis. Le mafie, forti del cospicuo capitale liquido a loro disposizione, tendono ad aumentare il loro raggio di azione per incrementare il giro di affari entrando nelle compagini sociali delle aziende in difficoltà.
Per ‘ndrangheta, camorra, cosa nostra e sacra corona unita la pandemia è stata una vera manna dal cielo, un vero e proprio “business” da non perdere.
Assolombarda, che da anni conduce la sua “battaglia per la legalità” nel tentativo di arginare il fenomeno criminale, ha più volte segnalato il pericolo di infiltrazioni mafiose nelle aziende del Nord, ancor più a rischio nei periodi di crisi economico-finanziaria.
L’infiltrazione mafiosa nell’economia legale si struttura secondo uno schema consolidato nel quale entrano in gioco collusione e sottomissione fino a che l’imprenditore non viene estromesso dalle decisioni aziendali. Spesso per sempre. Più che di infiltrazioni oggi si può parlare di presenza radicata, di insediamento.
In base alle statistiche le aziende sotto il controllo del crimine organizzato nelle regioni del Nord sono circa il 20% ma la percentuale è destinata a crescere. Tre sono le regioni maggiormente interessate dal fenomeno mafioso: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Segno che la presenza criminale è maggiore laddove vi è più ricchezza. E questo era scontato già negli anni ’70 quando il fenomeno era agli inizi.
Con l’emergenza causata dal Covid-19 le cosche stanno rafforzando le loro radici nel territorio soprattutto nelle attività connesse alla gestione della pandemia. Si offrono all’imprenditore come panacea per risolvere i problemi di crisi di liquidità e invece diventano l’inizio della fine. Sono sempre di più gli imprenditori che cadono nella rete criminale ma ancora troppo pochi quelli che denunciano.
Il processo di penetrazione delle organizzazioni mafiose è agevolato da soggetti che compongono la cosiddetta “zona grigia”: amministratori, dirigenti o semplici dipendenti, a seconda che si tratti di grandi, medie o piccole imprese. Gli uomini della zona grigia sono solitamente imparentati, affiliati o comunque vicini ai clan e fungono da intermediari traendone comunque vantaggi economici.
Questo a dimostrazione che in tutte le mafie italiane si stanno progressivamente riducendo le componenti violente all’interno del metodo mafioso per attività in apparenza legali.
Le aziende in cui si sono radicate attività criminali e che godono dei vantaggi conseguiti illecitamente (gioco, droga, contrabbando, armi, prostituzione, eccetera) e che godono di capitali accumulati in precedenza, contrariamente a quanto si possa pensare, sono quelle a maggiore rischio di fallimento.
Le aziende partecipate da organizzazioni criminali di stampo mafioso mostrano secondo i dati dell’Aisi (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) una minore redditività, un indebitamento maggiore e una scarsa liquidità.
Presumibilmente alle mafie non interessa la redditività e il bilancio in positivo di un azienda ma poterla sfruttare per “ripulire” il denaro sporco proveniente da attività illecite. Insomma conta il riciclaggio e non l’azienda che produca reddito.
La “lavanderia del denaro” non ha a cuore le sorti dell’impresa e ancor meno dei suoi dipendenti ma consente la libera circolazione di soldi sporchi nascosti da un parvenza di legittimità.