Con la pandemia la spesa a casa è diventato un affare miliardario. E’ auspicabile che il settore non sia vittima di un ultraliberismo selvaggio ma che ci siano regole certe riguardanti i diritti sociali dei lavoratori, la sicurezza, l’igiene e la qualità dei prodotti. Altrimenti assisteremo al solito film: la comodità ottenuta sulla pelle di tanti poveri cristi, a vantaggio dei soliti noti.
Roma – Negli ultimi decenni la società è stata sottoposta a dei mutamenti che hanno stravolto la nostra vita individuale e collettiva. L’avvento delle nuove tecnologie ha rivoluzionato il mondo del lavoro e delle relazioni sociali. Questi aspetti si sono acuiti negli ultimi due anni di pandemia: distanziamento sociale e smart working ne sono stati le due caratteristiche principali. Un settore che ha subito una vertiginosa crescita è stato il food delivery.
Nelle recenti festività natalizie, secondo le stime di Coldiretti, si è raggiunto il valore record di 1,5 miliardi di fatturato. Ciò è stato favorito anche dal fatto che ben 2,5 milioni di persone sono state costrette a casa dalla pandemia. E’ un settore che continua la sua ascesa inarrestabile, tanto da registrare rispetto al 2020 un incremento del 59%. Nell’anno appena trascorso 4 italiani su 10 hanno ordinato cibo a casa.
Mentre chi è stato contagiato o in isolamento è stato costretto a starsene rintanato in casa. Migliaia di lavoratori delle piattaforme digitali hanno pedalato per garantire la consegna di cibo a domicilio, sfidando vento e pioggia. Inoltre, pur disponendo dei famosi dispositivi di protezione individuali – ora mascherine FFP2 per via della nuova variante Omicron – sono stati e sono, comunque, a rischio infezione.
I dati della Coldiretti sono stati diffusi sulla base di uno studio Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) secondo cui è stato impiegato nella consegna a domicilio il 36,2% delle 570.521 persone che lavorano tramite le piattaforme digitali.
La richiesta è stata favorita, oltre che dal fatto di non poter uscire di casa, con molta probabilità dalla scarsa voglia di cucinare e di evitare di assembrarsi per il rischio contagio. Inoltre molti hanno preferito organizzare pranzi e cene standosene a casa, non essendo provvisti del famoso Super Green Pass o Green Pass rafforzato (quello che si ottiene dopo la terza dose di vaccino o quando si è guariti dal Covid) necessario per recarsi al ristorante.
Senza dubbio le limitazioni della pandemia hanno fatto scoprire in maniera diffusa agli italiani una nuova modalità di consumo. L’esplosione delle richieste ha innescato, però, una competizione al ribasso dei costi tra le diverse piattaforme che, per assicurarsi quanti più clienti possibili, hanno fatto di tutto e di più con offerte gratuite di trasporto, promozioni e ribassi.
Tutto questo ha rischiato di incidere su tutta la filiera, dal personale al ristoratore, fino ai fornitori di prodotti agricoli e alimentari. Su questo aspetto una ricerca Coldiretti-Censis ha evidenziato che il 38,1% che hanno ordinato il cibo online, hanno messo al primo posto il miglioramento dei diritti lavorativi dei riders.
Oltre alle condizioni dei lavoratori sono emerse altre criticità. Ad esempio l’esigenza di una maggiore sicurezza dei prodotti durante il trasporto per garantire adeguati livelli igienici, maggiore promozione della qualità dei prodotti e degli ingredienti; più prodotti tipici e fornitori locali. Ora, il food delivery pare stia diventando una modalità di consumo che, secondo le previsioni, si diffonderà a macchia d’olio.
E’ quanto meno urgente, quindi, un avviso ai naviganti, nell’accezione di avvertire e richiamare l’attenzione su un punto dirimente di tutta la faccenda. Ovvero è auspicabile che il settore non sia vittima di un ultraliberismo selvaggio ma che ci siano regole certe riguardanti i diritti sociali dei lavoratori, la sicurezza sul lavoro, l’igiene e la qualità dei prodotti. Altrimenti assisteremo al solito film: la comodità ottenuta sulla pelle di tanti poveri cristi, a vantaggio dei soliti noti.