Il troppo lavoro nuoce alla salute alle stessa stregua della disoccupazione. I casi di decesso per stress professionale sono in costante aumento e con la pandemia sono diventati molto più numerosi. Ogni eccesso è letale, questa è la riprova.
Roma – Non se ne può fare a meno, eppure ogni volta che si ha a che fare con Lui sono cavoli amari. Tanto per dirla in maniera gergale per esprimere che sono problemi seri. Stiamo parlando del lavoro, ovvero del totem della nostra società che tutto fagocita e tutto avviluppa. Precisamente delle morti per eccessivo carico di lavoro.
Negli ultimi tempi ci si è rassegnati, consapevoli che il Covid ha innescato una crisi economica e sociale con conseguente perdita di posti di lavoro. Poi la strage provocata dai decessi per infortuni sul lavoro. E tanti che il lavoro ce l’hanno, scoprono che il colore preferito del lavoro è il nero.
Siccome non si può mai stare tranquilli, ecco una notizia he ci ha fatto sobbalzare: l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) hanno comunicato che sono circa 745 mila le morti riconducibili al troppo lavoro.
I dati riguardano il 2016 ma secondo i ricercatori è molto probabile che, se avessimo a disposizione quelli più recenti, il numero aumenterebbe in maniera assai marcata. Il quadro non è per niente rassicurante.
Ai morti per ictus e cardiopatia ischemica, i due effetti letali per eccessivi carico di lavoro, si devono aggiungere 23 milioni di lavoratori che hanno un’aspettativa di vita molto bassa a causa degli stessi fattori debilitanti. Con danni economici e sociali, a carico del welfare state, ovvero di noi contribuenti.
Pare che il troppo lavoro ricada su 488 milioni di persone, l’8,9% della popolazione mondiale. Riguarda coloro che investono, o sono costretti a farlo, più di 55 ore della propria attività lavorativa a settimana.
Il maggiore numero di casi sono stati riscontrati nel Sud-Est asiatico e nel Pacifico Occidentale e sono stati misurati su uomini di mezza età. La ricerca è stata effettuata su 194 paesi del mondo.
Sono stati studiati i dati relativi agli anni 2000, 2010 e 2016, mettendo a confronto il parallelo tra le condizioni di salute di chi lavora tra le 35 e 40 ore settimanali e chi, invece, raggiunge o supera la soglia di 55 ore. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sul portale scientifico Science Direct.
Perentorio l’invito delle due Organizzazioni ai Governi mondiali ad effettuare interventi mirati per diminuire carichi di lavoro insostenibili e deleteri per il singolo lavoratore. Indubbiamente, una notizia del genere lascia basiti soprattutto in un momento storico particolare con l’economia vittima degli effetti devastanti del Covid.
E col dibattito politico che è incentrato sul rilancio occupazionale, con la creazione di nuovi posti di lavoro e sul ripristino di quelli lasciati a metà del guado per le misure di contenimento del contagio. In particolare, si è intervenuti con i vari decreti Sostegni, con la cassa integrazione e sussidi diversi.
Da qualsiasi punto di vista si tocchi l’argomento quando si parla di lavoro è come affrontare un sentiero impervio ed irto di difficoltà. Come attraversare una Via Crucis o le Forche Caudine. Per raggiungere che cosa? Il patibolo.
Sì è proprio come essere “condannati a morte“. Nel senso che se siamo disoccupati gli effetti sono nel peggiore dei casi la morte per inedia. E nel migliore, ovvero se di lavoro ne abbiamo uno o più di uno, ci aspetta lo stress psico-fisico sino alla depressione.
E quando un lavoro c’è da tempo, allora non si sfugge a burnout (esaurimento nervoso), mobbing (angherie), infortuni e sovraccarico d’orario. Le alternative sono: la morte o la malattia, che è la sua anticamera. Che bella prospettiva!
Possibile che l’intelligenza umana non abbia ancora scoperto un sistema per vivere senza il lavoro, almeno così come l’abbiamo conosciuto finora?
Non c’è che dire: “è proprio una vitaccia“. Come esclamò il cacciavite nel tentativo di serrare una vite che non voleva saperne di allocarsi nella sua posizione naturale.