I fautori dello slow fashion sostengono che il consumatore con questo approccio etico e responsabile si rende partecipe di un processo di cambiamento benefico per gli esseri umani e l’ambiente. Occorrerebbe inventare anche la slow political ma con la nostra pletora politica sarebbe proprio una mission impossible.
Uno delle caratteristiche principali delle società avanzate è che qualsiasi trend, una volta superati gli iniziali ostacoli, tracima al punto da diventare pervasivo. E’ successo con la locuzione slow, che è entrata a pieno diritto nell’immaginario collettivo. Tanto che se non si è slow almeno a parole, non si ha diritto di cittadinanza. In linea generale è una concezione della società e della vita più lenta e rispettosa dei cicli naturali e che cerca di soddisfare i propri bisogni rispetto a quelli imposti dal consumismo. A questa regola ferrea non è sfuggito il settore della fashion.
All’inizio il concetto si è diffuso tra i brand sensibili ai temi della sostenibilità ambientale. Si è parlato di slow fashion per la prima volta nel 2007, allorché la consulente di design sostenibile Kate Fletcher parlò di produzione e di consumo di abbigliamento in base ai principi del movimento slow food, nato per contrastare il cibo spazzatura del fast food.
Questo concetto mira a sovvertire il consumismo dilagante che pervade tutti i settori, soprattutto in relazione ai valori e obiettivi. Ormai è cosa nota che la moda usa e getta, fast fashion, quella che arriva velocemente sugli scaffali, per essere poi sostituita con altrettanta celerità, si regge sullo sfruttamento della manodopera, anche minorile a basso costo in Paesi come Cina, Pakistan o Bangladesh e su inquinamento e spreco di risorse naturali.
Trattasi, dunque, di un approccio consapevole adottando da alcuni brand, che tiene conto di certi aspetti, quali la salvaguardia dell’ambiente e le condizioni lavorative di chi produce capi e accessori. Il motivo non è tanto etico, quando pragmatico: la crescente presa di coscienza dei consumatori ha spostato la domanda verso prodotti che abbiano un background di eticità e di correttezza.
Quindi le aziende più avvedute si sono adattate a questi mutamenti. C’è da sottolineare anche la consapevolezza di una parte dei consumatori verso l’acquisto di capi veramente utili e non frutto dello shopping compulsivo.
Dalla pandemia, che tanti effetti nefasti ha provocato sulla sanità e sull’economia globali sta, tuttavia, emergendo qualche opportunità. Ad esempio il business made to order, cioè la produzione aziendale che consente ai consumatori di acquistare capi personalizzati in base alle loro richieste. In questo modo la produzione inizia solo dopo aver ricevuto un ordine d’acquisto confermato dal cliente.
Kate Fletcher
I fautori dello slow fashion sostengono che il consumatore con questo approccio etico e responsabile si rende partecipe di un processo di cambiamento benefico per gli esseri umani e l’ambiente. Più cresce il numero di consumatori di questo tipo, meno aziende ricorrono alla delocalizzazione. Del resto i danni provocati dalla fast fashion sono terrificanti: il 20% dello spreco globale di acqua (si pensi che la lavorazione di un paio di jeans ne assorbe 11mila litri); il 10% delle emissioni di anidride carbonica.
Inoltre, il cotone è la fibra più utilizzata per produrre capi di abbigliamento. Ebbene per la sua coltivazione viene utilizzato il 24% di insetticidi e l’11% di pesticidi su scala mondiale. All’inquinamento è associato il mancato riciclo dei capi. Secondo i dati delle Nazioni Unite solo l’1% viene riciclato, mentre l’85% finisce in discarica.
Secondo gli ambientalisti, la moda usa e getta è tra le maggiori responsabili di discariche a cielo aperto negli oceani e delle isole di rifiuti raccapriccianti. Di quest’ultime, la più conosciuta è la Great Pacific Garbage Patch nell’Oceano Pacifico.
Alcune stime parlano di un’estensione che oscilla da 700mila ai 10milioni di km2. Ecco cosa ha provocato la produzione intensiva. L’augurio che ci possiamo fare è che la concezione slow si diffonda in tutti i campi della vita sociale in modo da diventare modello standard. Altrimenti sprofonderemo sempre di più.