Da approfondite analisi di settore emerge che il 45% dei lavoratori si è mostrato poco o per nulla fiducioso per quanto riguarda la propria carriera nei prossimi due anni. A pagare il prezzo più alto, come dappertutto, è la fascia d’età più giovane tra i 18 e 24 anni: il 23,5% ha perso il posto. Nei mesi a venire la situazione sembra in netto peggioramento.
Roma – Pandemia e lavoro costituiscono un connubio devastante. Qualsiasi analisi, studio o report che leggiamo sullo stato di salute della nostra società non fa che evidenziare lo sconvolgimento che ha sortito il Covid-19 sulla nostra vita. Non solo ma anche nelle relazioni familiari e sociali. L’influsso nefasto si è avvertito, soprattutto, sulla sfera lavorativa a livello globale, spazzata via dall’onda lunga della crisi.
Il 64% dei lavoratori, corrispondenti ai due terzi, ha dichiarato di aver subito un forte contraccolpo professionale dall’emergenza sanitaria. Il quadro a tinte fosche è stato dipinto, se così si può dire, da ADP Research Institute a seguito di una ricerca condotta su lavoratori di 17 Paesi.
E’ emerso che il 28% dei lavoratori ha dovuto dire addio alla propria occupazione o è stato messo in condizioni simili alla nostra cassa integrazione. Oltre a questo si è verificata una riduzione dello stipendio per il 23%, pari ad un lavoratore su quattro con la fascia d’età più giovane penalizzata.
Mentre una percentuale altrettanto cospicua ha dovuto subire una riduzione dell’orario di lavoro o delle responsabilità. Inoltre a ribadire i timori di un contesto molto incerto per quanto riguarda l’occupazione, il 76%, ha dovuto subire un demansionamento oppure assumere compiti extra e dover seguire più progetti in contemporanea o, ancora, lavorare più ore.
Questa è la realtà emersa a livello globale mentre anche nel nostro Paese i dati non sono particolarmente incoraggianti. E non poteva essere diversamente: il 45% dei lavoratori si è mostrato poco o per nulla fiducioso per quanto riguarda la propria carriera nei prossimi due anni. Anche qui, a pagare il prezzo più alto, come dappertutto, è la fascia d’età più giovane, tra i 18 e 24 anni: ben il 23,5% ha perso il posto di lavoro. Segue la cosiddetta generazione dei Millennials – i giovani nella fascia d’età 25-34 anni – che raggiunge la percentuale dell’11,5%, quindi quella di 35-44 anni, il 9%.
E’ molto difficile stabilire uno scenario per il futuro, anche perché ci si trova di fronte ad una situazione molto complessa e complicata allo stesso tempo. Il report nelle sue conclusioni, tuttavia, ha sottolineato che l’ottimismo vacilla ma resiste. E’ emerso, infatti, che i lavoratori confidano negli effetti salvifici di una maggiore flessibilità sul lavoro così come l’acquisizione di nuove competenze.
Su quest’ultime si può essere senz’altro d’accordo per via della complessità tecnologica del lavoro tale che, se non ci si aggiorna, si è tagliati fori. Sul concetto di flessibilità è lecito nutrire forti dubbi, almeno per quanto riguarda la situazione italiana. La vulgata retorica del concetto prevede che un lavoratore flessibile è colui che non resta costantemente al proprio posto di lavoro a tempo indeterminato. Ma cambia più volte, nella propria vita, la propria attività occupazionale o il datore di lavoro.
E’, quindi, una condizione decisa in primis dal mercato ed, in un secondo luogo, dall’azienda. Sicuramente ottimale per quei lavori ad altissima competenza e professionalità. Ma per la maggioranza che svolge lavori di livello medio-basso con pari salari con i quali a fatica si arriva a fine mese, flessibilità vuol dire restare senza lavoro e senza cibo. Oppure andare ad ingrossare le fila del lavoro sommerso: più flessibile di così!