La legge sulle querele temerarie per diffamazione contro i giornalisti è rimasta lettera morta in Parlamento. Dunque bisogna sempre stare in campana. Anche nel parlare di mafia perché se si calca la mano contro un boss si rischia la galera. Dunque bisogna prestare attenzione a certe definizioni che diffamano la persona ma non la categoria.
Attenzione alle parole: è facile incorrere nel reato di diffamazione. Il nostro è proprio uno strano Paese che definirlo eterogeneo è ben poca cosa. Già culla del Diritto e patria del breve e famoso saggio Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, uno dei testi più influenti della storia del Diritto penale.
Ora questo strambo Bel Paese sembra essere diventato anche la patria del rovescio, in quello che può essere considerato un vero e proprio disturbo bipolare. Non si tratta del rovescio di maglia e cucito, né di quello più famoso del tennis. Ma proprio il rovescio della medaglia, ovvero il lato peggiore di una determinata situazione. Ora che cosa è successo di tanto eclatante?
Vagando per il cyberspace ci siamo imbattuti nel testo di una sentenza, per certi versi sconcertante, datata 2017, che ci ha lasciati prima sorpresi e poi basiti. Nessuna persona, neppure un boss della malavita può essere paragonato ad un escremento. A firmarlo è stata la Corte di Cassazione, ovvero la Corte Suprema, l’organo al vertice del potere giudiziario nell’ordinamento giuridico italiano.
Tra le sue principali funzioni emerge quella di assicurare procedure importantissime come l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge del diritto oggettivo nazionale, nonché il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni. I fatti: Rino Giacalone, cronista di giudiziaria e molto conosciuto per il suo impegno antimafia, è stato accusato di diffamazione alla memoria di Mariano Agate.
Chi era costui? Un artista famoso, un noto uomo di lettere, un benefattore, un insigne personaggio della politica? Un mecenate? Niente di tutto questo: l’uomo era semplicemente il capo mandamento di Mazara, condannato all’ergastolo per la strage di Capaci e morto il 3 aprile 2013 a 73 anni. Il giornalista, nell’esercizio della sua funzione, ne aveva ricordato la storia criminale, chiosando con una considerazione, cioè che la sua morte aveva tolto alla Sicilia “un gran pezzo di merda”.
La locuzione aveva scosso la delicatezza d’animo e la sensibilità della famiglia del defunto, i cui congiunti avevano fatto ricorso alla prima sentenza di assoluzione nei riguardi del cronista. Una sentenza, beninteso, emessa in primo grado perché il fatto non costituisce reato. I giudici della Cassazione, invece, accogliendo il ricorso, stabilivano che il boss aveva diritto a quella “…Dignità che il nostro ordinamento riconosce a qualunque essere umano, anche a chi ha fatto parte di un’associazione malavitosa sanguinaria e nefasta (o addirittura la capeggia) e non può essere paragonato ad un escremento…”.
La sentenza, inoltre, precisava che la celebre frase di Peppino Impastato – giornalista, conduttore radiofonico e attivista politico, noto per le sue denunce contro Cosa Nostra, per le quali è stato assassinato il 9 maggio 1978 – la mafia è una montagna di merda, evidenziava la devastante capacità dei clan di intaccare le strutture portanti della società civile, ma non può essere d’aiuto perché non riguardava il singolo.
Infine la Suprema Corte aveva cosi chiosato il proprio provvedimento:”… Il fondamento costituzionale del nostro sistema penale postula la rieducabilità anche del peggior criminale e, pertanto, non può tollerare, neanche come artifizio retorico, la sua reificazione…“. Ed ancora: “…La dignità di una persona rappresenta un valore fondamentale del nostro ordinamento, anche di chi ha commesso delitti efferati, giacché proprio il rispetto di tali diritti qualifica la superiorità dell’ordinamento statale fondato sulla centralità della protezione dell’individuo…“.
Ora in uno Stato di Diritto le sentenze vanno rispettate e noi ci inchiniamo davanti ai provvedimenti degli Ermellini. Tali atti giudiziari, di contro, vanno anche criticati nel rispetto del medesimo diritto costituzionalmente garantito.
Tale critica viene esercitata non con gli strumenti del diritto tout-court, ma considerando gli effetti che una sentenza di questo tipo può avere sul contesto sociale. Se non è possibile utilizzare un artifizio retorico dispregiativo, perché lo si può fare con quelli elogiativi? Tale presupposto non stride forse col principio di uguaglianza davanti alla legge?
E poi la distinzione tra l’invettiva contro il singolo e quella contro Cosa Nostra, nel suo insieme, sa tanto di astrattezza teorica e di negazione del contesto. Una domanda da rivolgere ai giudici del Palazzaccio che si sono dimostrati così sofisti sorge spontanea: se il giornalista avesse scritto – è morto un componente facente parte di un’associazione di merda – sarebbe stato assolto? Applicando la loro logica senza dubbio. L’invettiva non sarebbe stata dunque rivolta al singolo, come hanno tenuto ad evidenziare gli Ermellini, ma alla mafia in generale. Che di sterco è composta.