La guerra nasconde anche altri allarmi, altrettanto letali. Urgono interventi radicali per la tutela del Clima e nell’immediato sia da parte delle Istituzioni politiche che delle multinazionali. Bisogna fare prestissimo, perché come ha dichiarato il segretario dell’ONU, Antonio Guterres “ritardare vuol dire morire”. E la terra è sull’orlo del baratro.
Roma _ La società della comunicazione di massa si distingue per un tipo di informazione a tappeto sul fatto del momento. Oggi siamo bombardati – è proprio il caso di dire – da notizie a getto continuo sulla guerra in Ucraina, che ha assunto il ruolo di protagonista principe nel meccanismo dell’informazione h24. Non poteva essere altrimenti però si ha la netta sensazione di essere travolti da una sorta di effetto earworm, che nella lingua di Dante significa tormentone.
Con questa locuzione si intende l’ascolto continuo e ripetuto sempre della stessa musica o dello stesso brano fino a restarne esausti e intrappolati. E le altre notizie dove sono, forse vengono nascoste, che fine fanno? Ad esempio, in queste settimane di guerra, si è smesso di parlare di crisi climatica.
La presentazione dell’ultimo rapporto sullo stato del clima, a cura dell’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, è stata presentata il 28 febbraio, ma è passata quasi sotto silenzio. Si tratta dell’Organizzazione istituita nel 1988 dall’ONU, con lo scopo di valutare, su basi scientifiche, tecniche e socioeconomiche, il rischio dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo e le loro possibili conseguenze, e di suggerire eventuali soluzioni per la riduzione di tali mutamenti.
Dal rapporto è emerso un quadro allarmante, da paura: 34mila studi singoli hanno evidenziato danni irreversibili prodotti dal riscaldamento globale. Il rapporto è stato stilato da 1000 scienziati di varie discipline e provenienze, nonché condiviso dai Governi delle 195 nazioni che fanno parte dell’IPCC. Lo studio riguarda il futuro della Terra fino al 2100.
Non è una data così lontana se si pensa che un bambino nato oggi avrà 78 anni nel 2100. Il primo responsabile della crisi climatica, come sanno tutti, anche i bambini, è il riscaldamento globale, che è allo stesso tempo il nemico principale della sopravvivenza della Terra. Il rapporto è un vero e proprio cahier de doléances, l’elenco delle doglianze.
Gli impatti diffusi e pervasivi sulle persone e sull’habitat provocati da ondate di calore sempre più frequenti ed intense sono all’ordine del giorno. A queste si aggiungono siccità, incendi, tempeste, inondazioni. Le vittime prescelte sono quelle più cagionevoli: persone, alberi, barriera corallina.
Urgono interventi radicali e nell’immediato sia da parte delle Istituzioni politiche che delle multinazionali. Bisogna fare presto, perché come ha dichiarato il segretario dell’ONU, Antonio Guterres “ritardare vuol dire morire“.
Se si riuscisse a controllare l’aumento del riscaldamento globale al di sotto di 1,6° entro la fine del secolo -adesso siamo già a 1,1° – un fatto à certo: l’8% degli attuali terreni agricoli non sarà più climaticamente idoneo a ospitare colture, con una popolazione mondiale che sarà di oltre 9 miliardi. Questo è quello che si verificherebbe nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore è il disastro totale.
Il riscaldamento globale soggetto ai ritmi attuali produrrà 183 milioni di persone in più che soffriranno la fame entro il 2050. Già oggi circa 3,5 miliardi di persone vivono su una soglia di estrema vulnerabilità ai cambiamenti del clima. Metà della popolazione mondiale soffre di gravi carenze d’acqua ogni anno. Alcuni sostengono che l’acqua, come valore economico, potrebbe sostituire il petrolio e chi ne gestirà le fonti avrà un potere immenso e decisivo.
Attualmente una persona su tre è sottoposta a stress da calore mortale e si prevede che, entro la fine del secolo, la percentuale passerà dal 50% al 75%. Rispetto al rapporto precedente, mezzo milione di persone in più, ogni anno, rischiano gravi inondazioni. Entro il 2050, a questi, si aggiungerà il miliardo degli abitanti delle zone costiere che si affacciano sugli oceani.
A causa del riscaldamento globale si sono diffuse malattie virali come la febbre Dengue, sia tra le persone che tra il bestiame e gli animali selvatici. La flora e la fauna non avevano mai sperimentato condizioni climatiche così estreme. Una buona metà di specie note sono state costrette ad adattarsi ed a spostarsi, ma spesso sono a rischio estinzione. Oggi meno del 15% della terra, il 21% dell’acqua dolce e l’8% degli oceani sono aree protette.
Mentre, affinché la natura selvaggia sopravviva, bisogna preservare il suo stato naturale dal 30% al 50% sia per la terraferma che per l’acqua dolce e gli oceani. Siamo ancora in tempo per salvarci? Lo sapremo solo vivendo, se sarà ancora possibile!