Equo compenso come l’Araba Fenice, che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. E’ vergognoso che migliaia di colleghi siano costretti alla fame da società editoriali che incassano i contributi dello Stato e pagano un pezzo pochi centesimi. Che fine fanno i soldi pubblici? Costringere all’accattonaggio pubblicisti e professionisti freelance è una vigliaccata mentre i galoppini politici dell’informazione possono contare su stipendi e parcelle da favola.
Roma – Negli ultimi anni si è assistito nel settore dell’informazione cartacea e sul web alla crescita esponenziale di lavoratori freelance, un vero e proprio esercito industriale di riserva, che copre soprattutto le cronache locali e regionali. Spesso per paghe irrisorie, se non infime, senza alcun rispetto verso chi deve scarpinare per catturare la notizia e non stare al chiuso davanti al monitor di un computer per scrivere editoriali più o meno arguti e sagaci.
Un fatto questo, passato sotto silenzio, tranne poche eccezioni, a dimostrazione di come la “grande stampa” pensa a difendere le proprie rendite di posizione e i propri privilegi piuttosto che “fare il proprio lavoro a regola d’arte” come una volta si era soliti definire un lavoro fatto bene. Tra questi, tanto per dirne una, le pensioni sovradimensionate rispetto ad altre categorie professionali.
Questo aspetto, insieme alla pessima gestione, è stato uno dei fattori della crisi dell’ente previdenziale dei giornalisti, l’Inpgi, che molto probabilmente verrà assorbito dall’Inps. Ad esclusione, come pare, della gestione separata. Insomma è sempre la solita storia: se un ente è in crisi finanziaria, ci pensa mamma Inps a risolvere il problema. Tanto paga il contribuente.
Su un post a firma Samuele Bartolini del 3 novembre scorso dalla pagina Facebook è apparso il seguente testo, ripreso da professionereporter.eu, un’associazione per la difesa della professione giornalistica:
“…E’ come quando ero piccino. Quando da ragazzi eravamo alla partita del Castelluccio e passavamo il tempo a lanciarci giù dal ‘grottone’. Si rotolava giù macchiandosi i calzoni di verde. Anche ora sto rotolando giù. Ma a differenza di quando ero ragazzo, ora non mi diverto. Al contrario. Sto male. Di più. Sto malissimo. E non vedo il fondo. Dopo otto anni di onorato servizio e lenta ma costante crescita professionale, mi sono dimesso dal Tirreno…”.
Il Tirreno è un quotidiano toscano con sede a Livorno. La parte più interessante del post è quando viene evidenziato lo sfinimento, la voglia di scrivere che non c’è più – che per un cronista è la conditio-sine-qua-non per svolgere degnamente il suo lavoro – associato al vuoto, non sentire più nulla di interessante per cui valga la pena di farlo. Addirittura ha dichiarato di avere avvertito una sorta di fastidio per tutti gli accadimenti della cronaca: rincorrere il politico di turno per la polemica del giorno, fare un’intervista, prendere nota di manifestazioni.
Il problema principale si è manifestato con i compensi al ribasso del nuovo editore, il gruppo Sae Spa (Sapere Aude Editori) e della poca valorizzazione da parte del management. La scrittura giornalistica viene umiliata quando, dopo anni, il compenso è pari a quello di uno stagista. A questo stato dell’arte si è aggiunto il comprensibile crollo personale del protagonista della nostra storia, ogni volta che il conto personale continuava a calare.
A quasi 47 anni d’età una persona ha diritto ad un lavoro dignitoso soprattutto se ha moglie e figli. La dignità del lavoro innanzitutto, qualunque esso sia. Avere la mostrina del giornalista sulla giacca non serve a nulla se questa diventa un peso.
Il nostro protagonista ha deciso di guardarsi intorno per cercare un lavoro che gli desse un reddito superiore a quello finora percepito. E’ stato preso alle Poste con un lavoro temporaneo da svolgersi a Sesto Fiorentino, come addetto allo smistamento, con turni anche notturni. Dopo ventuno anni di appartenenza all’Ordine dei giornalisti e una laurea con lode andrà a fare l’operaio.
Non è il primo caso e non sarà l’ultimo. La professione ormai ha raggiunto l’acme dello svilimento assoluto. Chi ha l’ardire di porre giuste rivendicazioni viene visto come un problema ed eliminato alla radice. Quando l’economia andava bene, anche utilizzando fondi pubblici, i compensi, seppure ridicoli dei collaboratori erano sopportati perché si sperava nell’assunzione. Oggi si licenzia senza pensarci su due volte.
Chi è “garantito” se ne frega di chi non lo è fa di tutto per difendere le proprie posizioni. Una vera e propria devastazione sociale ed un cinismo portato all’estremo hanno, di fatto, abolito l’attenzione verso il precariato che purtroppo riguarda diversi comparti dell’economia, non solo il giornalismo. Tempi duri, quelli che stiamo vivendo. E con un certo fastidio allo stomaco.