Le novità spesso non piacciono ma questa è davvero la rivoluzione industriale dei nostri tempi. La produzione meccanica basata sul vapore, quella di massa che fa affidamento su elettricità e catena di montaggio, oltre ad altre novità avveniristiche, rappresentano un nuovo modello di produttività. E di nuovi orizzonti per i profitti.
La rivoluzione dell’industria 4.0 è ancora un cantiere aperto. Ormai siamo tutti rassegnati, anche perché i nostri strali di riprovazione non conducono a nulla se non a prendere atto, come disse nel 2017 il filosofo Emanuele Severino “Dio è il primo tecnico e la tecnica l’ultimo Dio“. Questa è un’epoca in cui la tecnologia è talmente pervasiva da plasmare non solo il nostro lavoro e le nostre abitudini, ma anche i nostri sogni e desideri, poiché non è l’uomo a disporre della tecnica, ma la tecnica dell’uomo.
Come non convenire con queste argomentazioni? La trasformazione digitale, infatti, ha permesso che gli elementi digitali siano un tutt’uno con quelli fisici. Secondo gli esperti del settore nel mondo manifatturiero e del lavoro questo potrebbe creare più produttività e più margini di profitto.
Ecco ci si prostra, solo e sempre, ai piedi delle due divinità che hanno più adepti: la produttività ed il reddito. Mai che ci si chieda quale sarà il processo e coloro che saranno i sacrificati sull’altare di questa coppia di “Dei” effimeri?
Ad esempio nel settore industriale molte aziende stanno aderendo alla Smart Factory, ovvero l’industria 4.0. Una struttura dove le tecnologie più all’avanguardia vengono integrate nei processi lavorativi.
Il risultato è un sistema più flessibile che, grazie all’automazione, rende il lavoro più snello, più smart. In questo modo si limitano di molto i tempi del processo produttivo ed i suoi costi essendo in grado di analizzare una mole enorme di dati in tempo reale.
La produzione sarà, quindi, più flessibile, efficiente ed autonoma. Il grande valore aggiunto sarà proprio il lavoro, orientato al miglioramento dei processi e non tanto su attività ripetitive. Esistono tante chances offerte sia da Industrial IoT (Industrial Internet of Things – trad. l’internet delle cose industriali), che dal PNRR.
Purtroppo spesso non vengono colte dagli imprenditori, in quanto vedono l’investimento troppo distante o, peggio, non si riesce a trarre un consistente vantaggio dai progetti di IoT già realizzati.
Inoltre a questo si aggiungono i costi d’investimento in macchinari ritenuti troppo alti, difficoltà di integrazione di dati provenienti da fonti diverse, calendario per la realizzazione di lunga durata. Sono tutti fattori che ostacolano tantissime aziende dal compiere il passo decisivo.
Nei fatti, la rivoluzione dell’Industria 4.0 è ancora nella fase iniziale o in quella dei desideri. I macchinari industriali hanno in media 20 anni di vita, il 27% delle aziende ha fallito l’introduzione di tecnologie Iot, con una perdita media di 500mila euro annue per ogni azienda a causa della incapacità di integrare i vari sistemi.
Sono dati e considerazioni forniti alla stampa da Gabriele Montelisciani, CEO di Zerynth, un’azienda con sede a Pisa che offre servizi per la digitalizzazione dei processi industriali e nello sviluppo di prodotti connessi e innovativi. Sorta nel 2015 oggi annovera circa 3mila realizzazioni di successo in aziende operanti in diversi settori industriali: meccanica, automotive, logistica, refrigerazione industriale, nautica e agricoltura.
Forse in Italia siamo ancora agli albori della Smart Factory, anche se numerosi studi di settore hanno dimostrato i benefici introdotti in azienda dalla transizione all’industria 4.0. Come si diceva, l’analisi sociale dei costi e benefici è tutta ancora da definire.
Secondo i fautori le persone sono considerate centrali in questo processo. Le tecnologie devono essere sviluppate e usufruibili attraverso un processo di design antropocentrico. L’industria 4.0 non è solo rivoluzione tecnologica, ma soprattutto del modo in cui viene prodotta e gestita l’informazione, che va compresa affinché il processo tecnologico vada a buon fine.
Tuttavia pensando a quello che è stato il processo capitalistico dalla rivoluzione industriale ai nostri giorni, non sembra, se non in rarissimi casi, che le aziende abbiamo avuto una grande visione antropocentrica. Le persone, spesso, sono state considerate “limoni da spremere” nel migliore dei casi, se non “soggiogate” nel peggiore. Con questo retroterra storico e culturale dobbiamo essere ottimisti? Chissà.