Nonostante l’ottimismo del Governo la crisi industriale continua a mordere i polpacci del Bel Paese. Se dalle parole non si passerà ai fatti i morsi rischiano di prendere alla gola migliaia di lavoratori che corrono il rischio di rimanere disoccupati. L’allarme rosso e della Cgil, mai cosi preoccupata come in questi giorni.
Roma – Mentre il Governo dei migliori è impegnato in tutt’altre faccende, elezioni del Presidente della Repubblica in primis e con il Covid che non conosce battute d’arresto, ci sono migliaia di lavoratori che rischiano di rimanere disoccupati. L’allarme è stato lanciato dalla CGIL e riguarda i settori strategici del nostro Paese.
Il numero di casi aperti per crisi industriale al Mise (Ministero dello sviluppo economico) è consistente. La preoccupazione è sorta in seguito ad uno studio effettuato dall’Area Industria e Reti della CGIL. Dall’analisi è emerso che sono più di 50 mila coloro che rischiano la disoccupazione in seguito a ristrutturazioni aziendali o che sono vittime di veri e propri fallimenti. Inoltre ci sono quelli che restano a spasso per le delocalizzazioni o perché gli impianti vengono riconvertiti in altre produzioni.
L’emendamento contro le delocalizzazioni inserito nell’ultima Legge di Bilancio, non è servito a granché, almeno non per le crisi già in essere. Sono vari i settori che rischiano di vedere i lavoratori in mezzo ad una strada. Si va dal calzaturiero a quello della moda, per finire con quello siderurgico.
Su quest’ultimo pesano come macigni il caso dell’ex Ilva di Taranto e Piombino, con tutti i problemi ambientali che ben conosciamo. Poi a ruota, segue il settore elettrodomestico, vittima in particolar modo della spietata concorrenza dei mercati esteri e poi quello automobilistico. Quest’ultimo avrebbe bisogno di una vera riforma, mirando ad una transizione ecologica che non sia realizzata sulla pelle degli operai.
La responsabile di Aree di crisi industriale complessa, Silvia Spera, ha descritto in due parole la grave situazione: “…Sono poche le vertenze che hanno avuto un esito positivo…”. Tra queste ricordiamo Elica, un’azienda che produce cappe aspiranti da cucina che è riuscita a far restare in Italia produzioni importanti anche grazie agli scioperi, alla competenza ed agli incentivi del Governo.
Le Aree di crisi industriale complessa si riferiscono a quei territori in recessione economica e perdita occupazionale di rilevanza nazionale. La complessità riguarda: crisi di una o più imprese di medio-grandi dimensioni con conseguenze sull’indotto; grave crisi di un particolare settore industriale con sostenute capacità sul territorio.
Il caso Elica, purtroppo, può essere considerato come una mosca bianca, perché sono numerose le altre situazioni insolute sull’agenda del Mise e lì restano. Nel senso che non si è ancora riusciti a dare risposte certe a migliaia di persone che chiedono solo di lavorare e che vedono a tinte fosche il loro futuro.
La CGIL come sindacato ha proposto un progetto su base nazionale per identificare i mezzi strutturali che portino alla salvaguardia del sistema industriale. In contemporanea stanziare fondi per l’innovazione e la ricerca in modo che l’Italia possa rappresentare uno stimolo per il resto dell’Europa.
Silvia Spera ha aggiunto: “…I capitali pubblici dovranno servire alle scelte industriali utili al Paese in modo da assicurare la transizione energetica, digitale e ambientale e salvaguardare la capacità industriale già esistente…”.
Se ne deduce che dovrebbe trattarsi di un progetto industriale controllato e monitorato dagli Enti pubblici per condurre a buon fine il progetto di trasformazione e riconversione verso il green.
Una famosa canzone di Mina degli anni ’70, di grande successo, aveva un titolo molto pertinente con i progetti enunciati sia dalla politica che dal sindacato: “Parole, parole“. Il brano continuava con: “…Parole, parole, soltanto parole, parole tra noi!..”. Questo è il grosso rischio che si corre, soltanto parole, perché di programmi seri sul cosa e come fare, nemmeno l’ombra.