La salvaguardia dei territori dove vivono tribù di aborigeni debbono essere affidate alle popolazioni locali che vanno aiutate a sostenere gli attacchi delle organizzazioni criminali, dei bracconieri e dei delinquenti internazionali che sterminano fauna e flora seminando il terrore. I Governi interessati debbono concedere il diritto al voto e alla gestione della natura che circonda villaggi e coltivazioni.
Roma – Gli ultimi guardiani della terra a rischio estinzione. Pare che il problema ambientale e la salvaguardia delle risorse naturali abbiano raggiunto un posto di rilievo nell’Agenda Politica di molti Paesi. Alla Convenzione dell’Onu sulla Biodiversità che si terrà in autunno in Cina, a Kunming, infatti, sarà ratificato il Piano 30×30.
Una coalizione di Paesi, tra cui Gran Bretagna, Costa Rica, Francia e Italia si è impegnata per la salvaguardia di almeno il 30% della terra e dell’acqua del nostro Paese. Solo che i veri guardiani della terra, le comunità indigene, non essendo riconosciute come componenti dell’accordo internazionale, non hanno diritto al voto. Possono partecipare solo come osservatori, eppure il Progetto 30×30 senza di loro non potrà realizzarsi.
L’80% della biodiversità esistente è localizzata nei territori aborigeni, sempre più soggetti nel corso degli ultimi decenni alla feroce occupazione dell’uomo civilizzato. Una coalizione di gruppi indigeni e comunità locali ha chiesto il proprio riconoscimento come parte dell’accordo con diritto al suffragio.
Il progetto, nella sua parte finale, dovrebbe portare alla tutela di almeno la metà della Madre Terra, perché solo un terzo non è sufficiente a preservare la biodiversità mondiale e immagazzinare abbastanza Co2 per via naturale, in modo da rallentare il riscaldamento globale.
I fatti ci raccontano che almeno il 50% della terra è gestita collettivamente dalle popolazioni indigene e dalle comunità locali in base ad antichi sistemi consuetudinari di possesso. Però solo il 10% è legalmente protetto. Sono molti gli esempi di resilienza degli autoctoni, tanto che spesso si rischia la vita, soprattutto nelle zone senza legge dell’Amazzonia più profonda.
Il presidente del Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Agricolo (IFAD), Gilbert Houngbo, ha sostenuto con forza un concetto fondamentale: “…Le popolazioni autoctone sono necessarie per costruire un mondo post-pandemico più sostenibile – ha detto Houngbo – Hanno sì sofferto in maniera abnorme gli impatti economici del Covid-19, ma hanno delle profonde conoscenze, che sono essenziali per un mondo più sostenibile e resiliente…”.
Per Iliana Monterroso, scienziata presso il Center for International Forestry Research di Lima, in Perù, risulta chiaro a chi debba essere affidata la gestione dei territori in cui vivono gli aborigeni “..E’ fondamentale che le persone che vivono in zone di alta biodiversità abbiano il diritto di gestirle, come succede nella Riserva della Biosfera Maya in Guatemala…”. Un dato che stride con il know how in possesso delle popolazioni locali e che hanno ancora scarso accesso alla Scienza.
I ricercatori indigeni nel mondo accademico sono una sparuta minoranza, nonostante facciano parte di comunità che esercitano la sovranità sui dati generati sulla loro terra, nel senso che appartengono alle tribù.
Ormai è accertato che gli indigeni per secoli hanno protetto foreste, fiumi e zone umide. Però i Governi mondiali fanno fatica a riconoscerne i diritti e lasciano che siano alla mercé di trafficanti di legname, bracconieri e compagnie minerarie senza scrupoli. Quando non di veri e propri cartelli mafiosi.
Sono gli ultimi, autentici guardiani della terra, la cui difesa è fondamentale per arginare il collasso ecologico del pianeta. Anche la Scienza ha dovuto ammettere che le loro culture e pratiche ancestrali sono le più efficaci per proteggere fragili ecosistemi e utili contro il cambiamento climatico.
Riuscirà a rinsavire l’uomo occidentale, con un colpo di coda? La speranza è l’ultima a perire, però c’è poco da stare allegri.