Una certa politica e imprese sempre più numerose sono ormai passate al servizio della criminalità organizzata. Gli affari illeciti nel settore della sanità erano stati annunciati un anno fa e puntualmente si sono verificati.
Catanzaro – Mentre la politica accusa la magistratura di “giustizia ad orologeria” oppure ignora le azioni di contrasto alla criminalità organizzata (contro la quale il legislatore dovrebbe mettere a punto leggi più incisive e snelle), i 50 arresti dei giorni scorsi hanno scosso i palazzi del potere.
Dicevamo 50 persone arrestate, di cui 13 in regime di custodia in carcere, 35 agli arresti domiciliari, 1 con obbligo di divieto nel comune di Catanzaro e 1 con obbligo di firma, sono stati il brillante risultato dell’operazione di polizia denominata ”Basso profilo” e coordinata dalla DDA di Catanzaro.
I provvedimenti che hanno disposto le misure cautelari sono stati emessi dal Gip del tribunale di Catanzaro, Alfredo Ferraro, su richiesta del procuratore capo Nicola Gratteri e dei sostituti procuratori Paolo Sirleo e Veronica Calcagno.
Diverse “le locali” e le ‘ndrine riferite a soggetti di caratura criminale, ciascuno dei quali con una determinata ”competenza territoriale” e aventi rapporti con l’imprenditore Antonio Gallo, conosciuto anche come ”il principino”, elemento collante tra i membri apicali dei vari clan.
Un gruppo criminale fortemente coeso e organizzato, operante nelle province di Cirò Marina, Cutro, San Leonardo di Cutro, Isola di Capo Rizzuto, Roccabernarda, Mesoraca, Botricello, Sellia, Cropani, Catanzaro e Roccelletta di Borgia, come hanno dimostrato le 266.500 intercettazioni telefoniche e ambientali, le indagini bancarie e gli accertamenti patrimoniali su 1800 conti correnti e su 388.000 operazioni bancarie ricostruite, per un giro d’affari di circa € 250.000.000.
Il jolly tuttofare delle cosche crotonesi, l’imprenditore Gallo, avrebbe intrattenuto rapporti sia con esponenti politici che delle forze dell’ordine. Al centro dell’indagine l’Udc, con l’assessore al Bilancio Francesco Talarico e il segretario nazionale Lorenzo Cesa. Il primo, finito ai domiciliari, nel 2018 avrebbe chiesto e ottenuto supporto elettorale dai clan quando era candidato capolista del collegio uninominale di Reggio Calabria per l’Udc.
Il secondo è indagato per associazione a delinquere, traffico illecito di influenze, riciclaggio, agevolazione delle attività mafiose e altri reati connessi. Coinvolti anche il consigliere comunale di Catanzaro Tommaso Brutto e il figlio Saverio.
A garantire l’appoggio a Talarico era l’entourage dell’ex senatore Antonio Caridi, all’epoca già in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa anche se, pienamente operativo, era lo zio Bruno Porcino, depositario dei pacchetti di voto dell’allora segretario regionale del partito.
A questi si aggiungono Natale Errigo, consulente di Invitalia, poi nel team anti-Covid, nominato per la distribuzione di mascherine, dpi e vaccini, imparentato con la cosca De Stefano – Tegano di Reggio Calabria e Antonino Pirrello, titolare di imprese di pulizia con commesse in enti pubblici.
Un altro nome degno di nota è quello di Ercolino D’Alessandro, ex maresciallo della Guardia di Finanza, che avrebbe venduto informazioni riservate alla ‘ndrangheta in cambio del coinvolgimento del figlio – arrestato – nella società aperta da Gallo in Albania.
Il business gestito dai crotonesi era milionario ed era caratterizzato dalla sistematica evasione delle imposte perpetrata dalle società fittizie che emettevano fatture per operazioni inesistenti per poi corrispondere, alle imprese beneficiarie, l’11% dell’imponibile indicato nelle fatture stesse.
Si parla di ben 159 società fruitrici di dette fatture, di 86 società emittenti documenti falsi e di 276 segnalazioni di operazioni finanziarie sospette da parte degli operatori finanziari. Il settore per eccellenza era quello dei servizi e fornitura di dispositivi di protezione individuali che copriva le attività fraudolente.
Contemporaneamente venivano reclutate persone incaricate di recuperare il denaro dalle società che si prestavano alla frode prelevandolo, in contanti, da diversi conti postali. Tali aziende ”apri e chiudi” o, meglio, usa e getta, erano gestite da italiani o albanesi nullatenenti che avevano lo scopo di rappresentare un giro d’affari inesistente e di permettere ad altre aziende ”reali” di evadere il Fisco.
Inoltre vengono contestati anche i reati di corruzione, turbata libertà degli incanti, truffa ai danni dello Sato, associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, auto riciclaggio e reati tributari. Gallo, secondo gli inquirenti, sarebbe stato in grado di turbare una serie di gare d’appalto, come verificato dalla sezione operativa della DIA di Catanzaro, bandite tra il 2017 e il 2018 dal Consorzio di Bonifica Jonio – Crotonese e Jonio – Catanzarese per appalti dal valore totale di € 107.415.000.
Nel caso in cui ”l’Antinfortunistica Gallo” non fosse riuscita ad aggiudicarsi l’appalto, glielo avrebbero affidato ”in via d’urgenza”, in modo da assicurare all’imprenditore un lauto guadagno nonostante il pagamento del 5% di provvigione. Questo era l’oligopolio di Antonio Gallo.
Un plauso sincero a questo immane sforzo investigativo che la Commissione Antimafia ha potuto seguire grazie al lavoro del suo ufficiale di collegamento DIA colonnello Luigi Grasso. Questi arresti dimostrano che “lo Stato non solo è presente ma è anche più forte e tenace” ha affermato in una nota il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra.
Si potrebbe fare molto di più, ci sentiamo di aggiungere noi altrettanto sinceramente, se fossero varate leggi chiare e facilmente applicabili in modo da snellire procedure e interventi. Fare i conti in tasca ai boss, come facevano Falcone e Borsellino, paga sempre. Ne sa qualcosa Nicola Gratteri che di conti e riscontri se ne intende.
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