In Italia i referendum hanno sempre fatto un buco nell’acqua. Speriamo che stavolta si possa dire il contrario. Fra i quesiti bocciati c’è la responsabilità diretta dei magistrati in sede civile mentre tutti gli altri sulla Giustizia sono stati ammessi. C’è chi giura che non se ne farà nulla. Sono i soliti malpensanti…
Roma _ Presto al voto per i referendum ma in agguato c’è il rischio quorum. Infatti per la validità della consultazione popolare è necessario che si rechino alle urne metà degli aventi diritto al voto più uno. Tre sono stati i quesiti bocciati e cinque quelli ammessi, tutti sulla giustizia.
La Corte Costituzionale ritiene inammissibile il referendum sulla Legalizzazione della coltivazione della Cannabis, sulla Responsabilità Civile dei giudici e quello sull’aiuto al Suicidio. Vatti a sbagliare.
Via libera invece agli altri cinque referendum in materia di Giustizia che riguardano le funzioni separate tra giudici e pubblici ministeri, l’applicazione della Legge Severino sull’incandidabilità dei condannati, la limitazione della custodia cautelare, le disposizioni per le elezioni del Csm ed il diritto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari.
Il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato in una conferenza stampa ha spiegato i motivi delle tre bocciature. Le ragioni costituzionali adottate riguardano l’area di “non punibilità” a cui i quesiti aprivano, aspetto che la Consulta non poteva ignorare.
Nel caso dell’eutanasia, che Amato ha definito “…Dell’omicidio del consenziente…” il quesito, qualora fosse stato approvato, avrebbe aperto “…Un’area di impunità che include casi molto diversi da quelli dell’eutanasia…”.
Nel caso della coltivazione della cannabis Amato chiarisce che nel quesito “…Si faceva riferimento a sostanze che includono le cosiddette droghe pesanti. E questo era sufficiente per farci violare anche obblighi internazionali…”.
Il referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati avrebbe invece un’applicazione innovativa e dunque in contrasto con il principio abrogativo. “…Il quesito noi non possiamo cambiarlo: se è composto da più vagoni e il primo deraglia, si porta dietro anche gli altri due…”, ha ricordato il Presidente della Consulta.
Com’era prevedibile le decisioni della Corte Costituzionale hanno già scatenato numerose reazioni, tra cui quelle molto critiche dei promotori come Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni. Adesso la parola spetta al Parlamento.
In Italia, in ogni caso, nessuno ha “diritto” a suicidarsi con l’aiuto di un medico, quali che siano le sue condizioni fisiche. Però la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale ha aperto un varco pericoloso che come un elastico si espande o si contrae a seconda degli interessi.
La decisione dei giudici si limita a individuare le condizioni in cui l’aiuto medico al suicidio non è punito, senza in tal modo creare alcun obbligo a procedere con tale sostegno in capo ai sanitari. Rimane affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, ad esaudire la richiesta del malato.
È questo il cuore del pronunciamento della Consulta, che non si è mai espressa per un diritto all’autolesionismo estremo. La sentenza della Corte non dice né dove né come il suicidio debba essere messo in atto e se, peraltro, l’obiezione di coscienza non è prevista, è proprio perché non si tratta di un diritto a cui i singoli possano opporsi.
Il tentativo è creare un precedente, anticipare cioè nella prassi ciò che dovrebbe invece essere deciso dai parlamentari. Le procedure per il suicidio medicalmente assistito non ci sono ancora, d’altronde le leggi non le fanno i comitati etici o il SSN, né i tribunali o la Consulta, che non legifera ma individua i confini di costituzionalità di norme esistenti.
In ogni caso la vita dovrebbe essere sostenuta anche nei momenti più difficili attraverso cure palliative effettive e capillari. Sembra paradossale in tempi di pandemia, quando l’impegno collettivo è interamente proteso a tutelare la salute dei cittadini, si discuta di rendere lecito l’aiuto a togliersi la vita.