Mentre la politica non pensa alle riforme che permetterebbero la vera trasformazione del Paese 1,8 milioni di famiglie indigenti non hanno di che sfamarsi e vestirsi. Se non fosse per la Caritas e le associazioni di volontariato i nuovi poveri se la passerebbero brutta. Solo una minima parte di invisibili ha ricevuto qualche contributo.
Roma – E’ ancora allarme povertà, non ci stancheremo di ripeterlo. Dopo quasi dieci anni di crisi, virus a parte, la povertà assoluta in Italia è raddoppiata e tende al rialzo. Ormai chi è in difficoltà economiche vive una condizione di fragilità che gli rende difficile cogliere qualsiasi opportunità, sfruttare il proprio talento, cercare di riscattarsi.
Pertanto qualunque riforma e strategia economica deve essere valutata e studiata in questo senso per risolvere il problema dei cosiddetti invisibili ovvero gli ultimi, i diseredati, i senza fissa dimora. Non solo, la povertà continua ad aumentare tra le fasce più giovani e così facendo il divario di reddito tra generazioni si amplia in maniera esponenziale.
Vivere in una famiglia in condizioni di povertà penalizza seriamente le prospettive dei bambini e degli adolescenti che rappresentano in assoluto le categorie più colpite.
Il vero problema è che dopo un anno di pandemia sono cresciuti a dismisura i nuovi poveri, presi in carico per la prima volta da parrocchie ed associazioni. Nel nostro Paese sono ormai oltre 453mila, in particolare il 60% è italiano ed il 53,8% sono donne.
Così la faccia nascosta delle nuove persone meno abbienti, causata dal Covid, viene fotografata dall’ultimo monitoraggio della Caritas che, con il coinvolgimento di 190 Caritas diocesane, prende in esame i quattro mesi finali del 2020 ed il primo trimestre del 2021.
Complessivamente alle Caritas si sono rivolte ben 545mila persone, dalla fine dell’estate scorsa fino a Marzo di quest’anno.
I dati del quarto rilevamento dell’organismo pastorale della Cei mostrano che una persona su quattro era sconosciuta e si è impoverita proprio da settembre 2020 a marzo 2021.
Proprio quando, accanto alla ripresa del contagio, arrivavano segnali di ripresa ed il governo attivava nuove forme di sostegno a famiglie e imprese colpite dagli effetti socio-economici della pandemia. E’ evidente che non ne hanno beneficiato tutti i bisognosi. Per non dire assai pochi.
La situazione, purtroppo, sta degenerando ed i nuovi indigenti, che sono quelli che vivevano già in equilibri precari, stanno affacciandosi anche da ceti sociali che si ritenevano prima privilegiati.
Secondo l’Istat sono in questa condizione 5 milioni di persone, ovvero 1,8 milioni di famiglie. Praticamente 1 persona su 12.
Addentrandoci nel disagio si può constatare che le persone più frequentemente sostenute, circa il 61%, avevano soprattutto impieghi irregolari, che non hanno potuto più svolgere a causa del Covid-19.
Poi ci sono i lavoratori privi di ammortizzatori sociali e il 40% tra autonomi e stagionali. A questo gravissimo stato di cose si aggiungono le difficoltà abitative, segnalate dall’84% degli interpellati.
Il disagio psico-sociale dei giovani, degli anziani e delle donne, entrambi indicati dal 77% delle Caritas, tende all’aumento in ogni parte d’Italia. Peraltro il 66,8% rinuncia o rinvia le cure sanitarie non legate al Covid.
E’ utile ricordare che la povertà economica alimenta la povertà educativa e viceversa. Insomma un circolo vizioso che innesca meccanismi difficilmente risolvibili se non si interviene subito e in maniera concreta.
Purtroppo in Italia la scuola non è più un ascensore sociale che consente di riscattarsi da una situazione di povertà. Preoccupante, infatti, il dato che l’indigenza si tramanda di padre in figlio, mentre prima questo passaggio non era così ineluttabile.
Ora se in Italia il 13% dei laureati è senza lavoro, il 40% dei giovani è inattivo, appena il 48% delle donne lavora e un milione di nuovi bisognosi avanza, la risposta deve essere di maggiore serietà e responsabilità da parte delle istituzioni a tutti i livelli.
Sono numerosissime le falle del nostro sistema di protezione sociale, ma il limite più grande è continuare a perseverare nel non cogliere le opportunità di riforma a cui, peraltro, la crisi ci obbliga. Lo ripeteremo sino alla nausea: non c’è tempo da perdere.