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ROMA – LA BEATIFICAZIONE DEL GIUDICE-RAGAZZINO RAPPRESENTA UN ESEMPIO PER TUTTA LA MAGISTRATURA ITALIANA

Nell'epoca degli scandali il sacrificio di Rosario Livatino e la sua beatificazione dovrebbero costituire un esempio di dedizione e sacrificio a tutti gli operatori del diritto ma, in particolare, ai colleghi del compianto giudice-ragazzino.

Roma – La notizia era trapelata da tempo ma la Santa Sede ha reso ufficiale proprio in questi giorni dedicati alla Natività, la beatificazione di Rosario Livatino, il magistrato ucciso “in odio alla fede”, il 21 settembre 1990. Il Papa ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto che ne riconosce il martirio.

Il Santo Padre e il martirio di Livatino

Consentita anche la promulgazione dei decreti che riconoscono le virtù eroiche di altri 7 Servi di Dio: Vasco de Quiroga, Bernardino Piccinelli, Antonio Vincenzo González Suárez, Antonio Seghezzi, Bernardo Antonini, Ignazio Stuchlý e Rosa Staltari. Il 3 ottobre 1952 Livatino si era laureato in Giurisprudenza a Palermo e nel 1978 entrava in magistratura ad appena 26 anni:

“…Sin dalla giovinezza partecipò all’Azione Cattolica e frequentò la parrocchia, dove teneva conversazioni giuridiche e pastorali, donando il proprio contributo sia nei corsi di preparazione al matrimonio, che agli incontri organizzati da associazioni cattoliche. Soprattutto da magistrato, però, continuò a vivere l’esperienza della comunità parrocchiale. La fede del giovane magistrato è stata una luce che lo ha illuminato lungo il proprio cammino, tanto che nel 1988, a 35 anni di età, dopo aver seguito regolarmente il corso di preparazione, volle ricevere il sacramento della Confermazione (della cresima)…”.

Il tragico omicidio del magistrato siciliano

In quegli anni a Canicattì e in tutto il territorio agrigentino la situazione sociale era scossa da una vera e propria guerra di mafia, che vedeva contrapposti i clan emergenti, denominati gli “Stiddari”, contro Cosa Nostra, il cui padrino locale era Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso condominio di Livatino.

Proprio per questo suo amore per la giustizia e oltre ad essere riconosciuto incorruttibile e comunque persona non avvicinabile dai cosiddetti “amici buoni” che lo invise al sodalizio mafioso. Lo stile criminale non è cambiato, anche se ormai si cerca di instaurare rapporti diversi con la persona da intimidire. Con la scusa dei consigli disinteressati l’amico degli amici tenta di intimidire la vittima. 

Livatino rimane un esempio, un punto di riferimento, un valore ideale non soltanto per i magistrati ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto. La “colpa” di Livatino era stata la sua sublime personalità, sempre coerente tra fede ed impegno nel lavoro quotidiano. Così Papa Francesco, nel 2019, parlava del giudice-ragazzino ed oggi è sempre lo stesso Pontefice che, con il riconoscimento del martirio, indirizza il giovane magistrato siciliano all’onore degli altari come nuovo Beato.

I necrologi sui muri di Canicattì

Una breve esistenza, gran parte della quale dedicata agli studi di giurisprudenza e alla conoscenza profonda del fenomeno mafioso con la grande capacità di trovare nessi e ricreare trame, tanto da firmare sentenze importanti che, proprio per questi motivi, lo avevano posto al centro dell’obiettivo criminale di Cosa Nostra.

Una persona perbene che ha creduto fino in fondo nel suo lavoro, svolto sempre con determinazione e serietà. Un uomo sempre attento alla persona, all’individuo, alla dimensione della possibile redenzione oltre che a quella del reato. Un uomo capace di condannare ma anche di capire cercando di infondere “alla legge un’anima” per poi porla cosi nell’interesse della collettività onesta.

Una persona di straordinaria rettitudine e di grandi virtù morali oltre che di eccezionale umanità. Livatino verrà ucciso in un agguato sulla strada statale 640 che conduce da Canicattì verso Agrigento mentre viaggiava da solo, in automobile, per recarsi in tribunale. Inutile il tentativo di fuga fra i campi perché i killer, da perfetti vigliacchi come tutti i delinquenti,  lo freddarono senza pietà a colpi di mitra e di pistola.

L’auto di Livatino crivellata di colpi

La motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì ad uccidere Rosario Livatino era stata esclusivamente quella della sua incorruttibilità e correttezza nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Infatti durante il processo penale contro mandanti ed esecutori, emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra, Giuseppe Di Caro, lo definiva con ostilità “santocchio”, proprio per la sua fede in Cristo e le frequentazioni parrocchiali.

In buona sostanza il giudice era ritenuto inavvicinabile dai mafiosi proprio per il suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze e dai documenti processuali risulta che l’avversione nei confronti di Livatino era inequivocabilmente riconducibile “all’odium fidei”.

Il boss Giuseppe Di Caro

Questi i motivi per cui i mandanti avevano pianificato l’agguato dinanzi alla chiesa che quotidianamente il magistrato frequentava, facendo visita al Santissimo Sacramento. Proprio l’attaccamento a Cristo e alla fede in uno con la correttezza morale hanno determinato il suo martirio che oggi la Chiesa gli riconosce

 

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