Marta Russo: omicidio a sangue freddo

All’interno dell’università “La Sapienza” una ragazza si accascia a terra raggiunta da un proiettile calibro 22 alla nuca. Si chiama Marta Russo e morirà dopo 3 giorni di agonia. Luci e ombre sul movente ma non solo.

Roma – La vicenda della morte violenta Marta Russo rimane un enigma ancora oggi. Una ragazza di soli 22 anni, appena compiuti, viene ferita mortalmente alla testa, proprio mentre sta percorrendo i viottoli della città universitaria “La Sapienza”, luogo sacro della cultura capitolina, un luogo considerato sicuro. Sono circa le 11.40 quando Marta Russo si accascia a terra come una bambola di pezza. Risulta immediatamente molto complicato stabilire con esattezza la traiettoria assunta dal proiettile mortale prima di conficcarsi nel cranio della vittima. Per mezzo di una grezza e sperimentale ricostruzione in 3D, gli investigatori riescono a ricostruire il percorso effettuato dalla pallottola omicida e giungono alla conclusione, anche grazie alla perizia dello Stub che rivelerà alcune particelle riconducibili agli elementi di innesco di uno sparo sul davanzale di una finestra dell’istituto di Filosofia del Diritto, che il colpo potrebbe essere stato esploso proprio attraverso quella finestra.

Università “La Sapienza” di Roma

Quelle perizie, però, verranno stranamente eliminate dal processo per decisione della Corte di Cassazione. Poi ci sono le testimonianze. Testimonianze che, durante tutta l’indagine, risulteranno a volte incongruenti e a volte mutevoli e che portarono all’arresto di due assistenti universitari: Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Quelle confessioni, rilasciate da tre testimoni, vengono aspramente contestate durante i diversi gradi di giudizio, suscitando forti polemiche per i metodi usati per ottenerle. Scattone e Ferraro, che si sono sempre dichiarati innocenti, vengono condannati per omicidio colposo e per favoreggiamento nel 2003. L’arma del delitto non è mai stata trovata, il movente mai individuato con certezza. Il caso Marta Russo potrebbe essere ben lungi dall’essere chiuso.

Giovanni Scattone

La dinamica dei fatti

Il sole splende sulla Capitale quel venerdì 9 maggio 1997. Marta Russo, studentessa di giurisprudenza, quel triste mattino sta percorrendo, con la sua amica e collega di studi Iolanda Ricci, il lungo viale dell’ateneo romano, tra le facoltà di Scienze Statistiche, Scienze Politiche e Giurisprudenza. Sono le 11.42 quando Marta, improvvisamente, crolla a terra esanime davanti a un’aiuola. Un proiettile calibro 22 le ha appena penetrato la nuca, dietro l’orecchio sinistro, e si è frammentato in undici pezzi causandole gravissime lesioni cerebrali. Una tragedia talmente repentina da registrare esigue testimonianze, tra di esse alcune parleranno di un colpo attutito, come sparato da un’arma col silenziatore. Si dirà esploso da una carabina o da una pistola. La giovane viene portata d’urgenza al policlinico Umberto I e ricoverata in condizioni critiche. Il 13 maggio, dopo tre giorni di agonia, ne viene dichiarata la morte clinica. Fin dalle prime ore della tragedia i media mostrano un’attenzione morbosa riguardo il caso. Anche i funerali, officiati presso l’ateneo, vedranno un parterre de rois, Saranno presenti Romano Prodi, Walter Veltroni, Luciano Violante e Luigi Berlinguer, oltre a una folla sterminata di studenti, amici e comuni cittadini. Persino Papa Giovanni Paolo II ricorderà la giovane vittima tramite l’invio di un messaggio durante l’Angelus. Marta Russo è oggi sepolta nel riquadro 85 del Cimitero del Verano.

Indagini e processi

Nei giorni immediatamente seguenti al crimine la Procura di Roma batte diverse piste, un’ampio spettro di ipotesi che spazia dal terrorismo all’ex fidanzato della giovane. Fondamentale per la Scientifica è determinare la provenienza del colpo mortale. La svolta avviene durante gli approfondimenti sulla stanza n. 6 della Sala Assistenti dell’Istituto di Filosofia del Diritto, posta al primo piano della Facoltà di Giurisprudenza. In quell’aula gli esperti della polizia rinvengono, sulla finestra destra n. 4, una particella composta da bario e antimonio e ritenuta residuo univoco di sparo. Viene rinvenuta altresì una seconda particella composta da piombo e antimonio anche’essa indicativa dello sparo. Il primo soggetto convintamente attenzionato dagli inquirenti verrà interrogato in seguito all’analisi dei tabulati telefonici.

Salvatore Ferraro

Risulta infatti che, immediatamente dopo lo sparo, vengono fatte due chiamate da un telefono nella stanza: una alle 11.44 diretta in casa Lipari e una quattro minuti dopo allo studio Lipari. Chi sono i Lipari? La dottoranda Maria Chiara Lipari, figlia di Guido, docente nella stessa università ed ex parlamentare della DC, esercita anch’essa nell’ateneo. In prima battuta la Lipari si defila, dichiarando agli inquirenti di non sapere nulla, nei successivi interrogatori però “la versione” diventa “diverse versioni”, spesso anche contraddittorie. La donna infine colloca altre due persone sulla probabile scena del crimine: la dipendente dell’Istituto Gabriella Alletto e l’usciere Francesco Liparota.

Alletto, interrogata tredici volte, nega categoricamente la sua presenza nell’aula 6 al momento dello sparo e qualunque altro coinvolgimento nel caso. Tuttavia, il 14 giugno, dopo un pesante interrogatorio di dodici ore, riguardo il quale furono al tempo sollevate molte perplessità e polemiche per la metodologia coercitiva utilizzata, conferma la presenza di Liparota e di due giovani assistenti, Scattone e Ferraro. Alletto racconta di aver sentito un tonfo, visto un bagliore, e di aver visto Salvatore Ferraro portarsi la mano alla fronte disperato e Scattone con una pistola nera in mano, poi riposta in una borsa che Ferraro, presumibilmente, farà in seguito sparire.

Gabriella Alletto

I due sospettati vengono arrestati durante la notte tra il 14 e 15 giugno. La Corte di Assise di Roma, nel giugno del 1999, condanna Giovanni Scattone per omicidio colposo e detenzione e porto di arma comune da sparo, e Salvatore Ferraro per favoreggiamento personale. Liparota viene assolto dall’accusa di favoreggiamento personale per non punibilità dovuta a stato di necessità, e Gabriella Alletto fu assolta per analogo motivo ai sensi degli articoli 54 e 384. Le testimonianze e le ritrattazioni, la non univocità delle prove scientifiche e, soprattutto, la difficoltà ad individuare un movente, tra lo sparo accidentale, lo scambio di persona e la teorizzazione del “delitto perfetto”, si susseguiranno nei quattro processi successivi alla sentenza di primo grado, due appelli e due pronunce della Cassazione.

Il verdetto finale arriva il 5 dicembre 2003 dalla quinta sezione penale della Suprema Corte: Giovanni Scattone viene condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione e Salvatore Ferraro a 4 anni e 2 mesi. Per i molti la conclusione era stata insoddisfacente. Il 2 aprile 2004, dopo 28 mesi di reclusione tra carcere preventivo e detenzione, Giovanni Scattone torna in libertà. Le accuse frettolose verso i due assistenti, la mancanza di un movente e la fin troppo esigua pena riconosciuta ai colpevoli, portano ancora oggi a pensare che il caso sarebbe staato cucito ad hoc per avere l’assassino ad ogni costo. A tenere vive le suggestioni parallele alla verità processuale ci sono anche le dichiarazioni dei testimoni che, a detta di alcuni, sarebbero state estorte. Ma c’è dell’altro.

Probabile movente e piste alternative

All’alba del primo grado di giudizio sui giornali iniziò a diffondersi la teoria del “delitto perfetto”, secondo la quale i due sospettati avrebbero discusso questo concetto durante una lezione e poi lo avrebbero messo in pratica quello stesso giorno. Sebbene considerata una pista poco consistente, gli inquirenti insisterono sulla tesi “Hitchcockiana”, aggiungendo che la situazione, ad un certo punto, fosse degenerata per colpevole imprudenza. La circostanza venne sempre negata con determinazione da Scattone e Ferraro, circostanza che cadde infatti definitivamente nel corso delle indagini e del primo processo. In realtà i due non tennero mai un seminario universitario sul tema citato, inoltre il professor Carcaterra, titolare della cattedra, smentì questa versione dei fatti, precisando che era lui a decidere il contenuto delle lezioni e che quella mattina in aula non si trattò del delitto perfetto ma di strategie difensive.

Francesco Liparota, AP Photo/Corrado Giambalvo

L’attenzione degli investigatori deviava dunque sulla pista del terrorismo politico quando, nel febbraio del 1998, una pistola piuttosto arrugginita calibro 22, con il colpo in canna, venne rinvenuta casualmente in un bagno maschile del Rettorato, sotto la sede della Biblioteca Alessandrina. L’arma, con la matricola abrasa, non era stata usata negli ultimi anni secondo una sommaria analisi della polizia. Quest’ultima venne trovata più esattamente in un’intercapedine avvolta in un berretto di lana e, probabilmente, giaceva lì da alcuni anni, tesi confermata anche dall’assenza di ossidazione nella pallottola infilatasi nel cranio della giovane studentessa.

Le speculazioni non si fecereo attendere anche riguardo il coinvolgimento della criminalità organizzata. Si paventò l’idea dello scambio di persona con la figlia di un testimone messinese sotto protezione, che frequentava sotto falso nome il corso di Filosofia. La giovane affermò infatti di essere stata nel mirino di killer mafiosi. La ragazza e suo padre sostennero che il delitto era una tentata ritorsione in quanto quest’ultimo era un imprenditore di Messina che denunciò alcuni boss locali per estorsione con la conseguente perdita di due supermercati di sua proprietà. La stundentessa messinese dichiarò:

I boss ci hanno rintracciato anche a Roma. Per l’agguato potrebbero aver scelto l’Università dove quasi ogni giorno io percorrevo lo stesso tragitto fatto da Marta.”.

Aureliana Jacoboni, mamma di Marta

Poi ci sono le lettere anonime, le false piste, gli infiniti quanto inutili identikit che non porteranno a nessun’altra solida verità alternativa. A esattamente 28 anni da quella sanguinosa mattinata la morte di Marta Russo è da annoverare nel lungo elenco degli omicidi dai contorni assai poco chiari.

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