Un mese e mezzo fa si sono tenuti gli Stati Generali della Green Economy, un processo partecipativo mirato ad affrontare la sfida verso la transizione ecologica delle imprese italiane. I problemi? Sempre gli stessi.
Roma – La transizione ecologica italiana verso un’economia green, nonostante l’impegno delle aziende, gode di uno stato di salute stazionario. Il virus che l’infetta, tanto per restare in tema sanitario, è come al solito sempre e soltanto lei: la perfida burocrazia! L’8 e il 9 novembre scorsi si sono tenuti gli Stati Generali della Green Economy, a cura del Consiglio Nazionale della Green Economy col concorso del Ministero della Transizione ecologica e il patrocinio della Commissione europea.
Il tema di quest’anno è stato “La nuova sfida della transizione ecologica per le imprese italiane”. Uno studio realizzato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile (centro studi e ricerche per la promozione dell’economia verde) e condotto su 1.000 aziende ha reso noto che il 62% di esse considera il momento storico attuale il più adatto per un cammino di transizione ecologica proprio dal punto di vista di strategia economica. Quello che langue, però, è un’informazione più completa soprattutto sull’economia circolare. La metà delle aziende è del parere che questo processo favorirà il posizionamento della propria azienda sul mercato. Inoltre, per altre imprese, la transizione non è considerata un costo, ma il prezzo da pagare per il rinnovamento e le trasformazioni più idonee.
Però quasi 1/4 esprime paure sugli effetti e 1/3 è convinta che queste misure provocheranno solo un aumento dei costi produttivi. Sono emerse le buone pratiche verso la transizione. Ovvero, utilizzo più efficiente di energia e acqua, per riciclare i rifiuti e per l’utilizzo di fonti rinnovabili. Un numero ancora basso di imprese ha avviato la riduzione delle emissioni nocive, però è ancora alto il numero di quelle che non l’hanno ancora previsto. Sul versante della qualità ecologica dei prodotti e dei processi, è risultato che il 22% del campione le ha rese operative, mentre il 40% è in fase di valutazione o di inserirle nell’agenda operativa. Non solo alte le percentuali di aziende che vedono benefici per i costi operativi, potenziamento della propria reputazione e rafforzamento delle partnership.
È, al contrario, notevole il numero di imprese convinte di non aver visto alcun vantaggio dagli strumenti messi in campo per la transizione. È chiaro che in questo caso gli investimenti potrebbero dare i loro frutti in un tempo più lungo, o che si tratti di una strategia i cui vantaggi potranno essere solo di interesse generale senza alcun vantaggio diretto per l’impresa. Ma l’ostacolo maggiore per giungere alla transizione ecologica è la burocrazia, che come una piovra estende i suoi tentacoli fino a stritolare non solo il comune cittadino, ma anche le imprese. Sono note le lungaggini per avere le autorizzazioni necessarie o per accedere alle risorse stanziate. Poi sono emersi ostacoli tecnici e quelli per adattare il modello di business.
Oltre a queste criticità sono emerse anche quelle più “generali”: l’aumento dei costi energetici e delle materie prime, crisi sociale e internazionale, crisi climatica ed eventi estremi. È chiaro che lo sforzo delle aziende deve essere sostenuto dalla spesa pubblica. Per quanto riguarda il primo aspetto, nonostante qualcosa si muova, come al solito gli imprenditori italiani aspettano che piovano risorse dal Governo, dimostrando di essere i soliti… prenditori di risorse pubbliche. La politica governativa, poi, stando alle ultime decisioni, rigassificatori e trivelle, dimostra che si è ancora lontani da una vera transizione ecologica. Anche perché sia per i politici che per gli imprenditori conta sì il “verde”, ma quello dei dollari, intendendo il vil denaro. È la transizione all’italiana, bellezza!