Con la pandemia il “sedicente” lavoro intelligente è entrato prepotentemente nella quotidianità di milioni di lavoratori. Tra chi lo elogia e chi lo demonizza c’è la politica che, come al solito, tarda nel regolamentare il nuovo settore.
Lo smart working? Un’autentica bolgia! Lo smart working (letteralmente lavoro agile) è piombato con prepotenza nel mondo produttivo durante la prima fase, la più critica, della pandemia. Gli esperti lo salutarono come una grande svolta nell’organizzazione aziendale dai cantori delle nuove tecnologie. É una modalità di lavoro non vincolata da orari o da luogo di lavoro, previo accordo tra dipendente e datore di lavoro. Una procedura di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, col possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Dal 1° agosto è mutata la platea dei beneficiari del lavoro da casa al 100%. Ma com’è nel costume italico, sono state inserite tutta una serie di eccezioni, al punto da sembrare un guazzabuglio, per cui non si comprende se alla fine è veramente cambiato qualcosa, oppure no. Da questa fatidica data, l’opzione smart working al 100% sarà concesso solo ai lavoratori dipendenti del settore privato, purché abbiano almeno un figlio al di sotto dei 14 anni, ma a determinate condizioni.
Il lavoro in queste modalità potrà effettuarsi se l’altro genitore lavora o come si legge nel testo. Inoltre non deve essere beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa. Già così il desiderio del lavoro agile si trasforma in pesante, come scalare una montagna.
Questo è il quadro generale, poi ci sono le eccezioni da discutere in azienda. In ultima analisi i lavoratori potranno optare per lo smart working dopo accordi col datore di lavoro, e dovrà essere garantito il 100% di lavoro agile oppure l’opzione di una modalità mista tra lavoro in presenza e a distanza. Per chi rientra nella categoria di lavoratori considerati con più possibilità di rischio contagio, affinché la richiesta possa essere soddisfatta, è necessaria una certificazione medica. Dando un’occhiata alla legge, emerge che il lavoro agile potrà essere esercitato da tutti i lavoratori immunodepressi per:
“…Esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità (la coesistenza di più patologie in uno stesso individuo) che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata dal medico competente, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione lavorativa…”.
La vulgata della grande stampa ha tanto strombazzato un aspetto, che si è rivelato menzognero. Ed è il concetto dell’assenza di vincoli orari o spaziali per fasi, cicli e obiettivi, stabilito tramite accordo tra il datore di lavoro e dipendente. In tanti casi il lavoro dall’ufficio è passato a casa, non sempre con la fascia oraria stessa, come risulta dalle lamentele manifestate da molti lavoratori. Con un monte ore superiore e maggior controllo, si è dimostrato perfino difficile… esercitare le proprie funzioni fisiologiche.
Comunque, la legge prevede che il contratto debba soddisfare alcuni aspetti, tra cui: durata dell’accordo, eventuale alternanza tra lavoro all’interno dell’azienda o all’esterno, luoghi separati per lo svolgimento dell’attività, come viene eseguita la prestazione lavorativa da remoto, gli attrezzi di lavoro e i tempi di riposo.
Ovviamente, i lavoratori agili godranno della parità di trattamento sia economico che normativo dei colleghi con prestazioni in presenza, compresa la tutela per infortuni e malattie professionali. Altro che lavoro agile, sembra una autentica bolgia normativa!