Il lavoro a distanza è praticato da lavoratori con reddito medio-alto, con un’alta attitudine da parte delle donne, con alto livello d’istruzione e con contratto a tempo indeterminato.
Roma – E’ il risultato di una ricerca dell’Inapp, l’Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche. Sembra la dimostrazione della proprietà commutativa dell’addizione in aritmetica. Ovvero: cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia. Praticare lo smart-working o lavorare in maniera tradizionale per le donne e per le fasce più deboli della popolazione il risultato è sempre lo stesso. Sono loro ad esserne svantaggiate.
E’ quanto emerso da una ricerca condotta dall’Inapp, l’Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche. Il lavoro a distanza è praticato da lavoratori con reddito medio-alto, con un’alta attitudine da parte delle donne, con alto livello d’istruzione e con contratto a tempo indeterminato.
Diffuso nei settori della finanza e assicurazioni, informazione e comunicazione, noleggio ed agenzie di viaggio, pubblica amministrazione e servizi professionali. La distribuzione del reddito determina un aumento dello stipendio lordo che riguarderebbe, però, i maschi, i giovani e quelli più anziani. Rimarrebbero indietro le donne e gli adulti compresi nella fascia d’età 51-64 anni, mentre tra i 25-35 anni si avrebbe un incremento:
“…Quello che si è praticato non è un vero smart-working, ma una delocalizzazione delle stesse mansioni svolte in ufficio – ha spiegato Sebastiano Fadda, presidente Inapp – chi aveva un reddito alto, ha continuato a farlo, mentre è stato praticamente sospeso il lavoro a bassa propensione alla delocalizzazione. Si è, invece, accentuato il divario di genere tra i lavoratori. Servono politiche di sostegno al reddito per le fasce più svantaggiate di lavoratori, di diffusione delle nuove opportunità e “di formazione professionale. Per far sì che il lavoro da remoto sia un’opportunità per tutti e non una scelta per pochi…”.
Ma c’è molto di più: “…Non c’è stata redistribuzione dei carichi di lavoro in famiglia, soprattutto per chi non ha aiuti in casa, siano colf, baby sitter o badanti. Da un nostra ricerca emerge che 1 donna su 3 lavora di più, mentre per gli uomini il rapporto è 1 su 5…” ha aggiunto Barbara Falcomer, direttrice generale di Valore D, l’associazione di imprese che si occupa dell’equilibrio di genere e di cultura inclusiva nelle organizzazioni.
Inoltre, il lavoro agile sembra decontestualizzare e spersonalizzare il rapporto di lavoro. In passato, i miglioramenti in positivo nei rapporti produttivi e organizzativi per le classi subalterne sono stati determinati da un contesto delineato e riconoscibile. Infine la possibilità che i rapporti sociali tendessero alla condivisione degli obiettivi era molto più concreta. Portarsi il lavoro a casa impone una sovrapposizione tra ambito produttivo e riproduttivo, che infatti si confondono.
Si corre il rischio di ripristinare il lavoro a cottimo e/o a domicilio, cioè quella modalità di retribuzione del lavoro riferita alla quantità di prodotto e di servizio effettivamente lavorato. Con ripercussioni su orari, diritti e contratti collettivi nazionali. Della serie: “E’ cambiata l’orchestra ma la musica è sempre la stessa”. Smart-working o lavoro tradizionale, chi ne paga le conseguenze sono sempre le stesse categorie: donne e lavoratori appartenenti alle fasce più deboli. Vatti a sbagliare.
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