Meloni chiede per sé il 50% dei seggi. Le diatribe in casa centrodestra contribuiscono al clima di incertezza che rallenta le riforme. Per quanto riguarda le amministrative per il rinnovo degli enti locali, il Movimento decide di non presentare il proprio simbolo in larga parte dei comuni, mentre i dem tendono la mano ad Articolo Uno. Le elezioni più cervellotiche di sempre?
Roma – Decine di onorevoli diranno addio alle poltrone. Nel prossimo Parlamento, per la prima volta, invece di 945 seggi saranno in palio solo 600 scranni tra Camera e Senato. L’obiettivo di una maggioranza assoluta e omogenea in grado di infondere stabilità al prossimo governo è una chimera che sfugge da ben due legislature.
Il centrodestra ormai da tempo non salva più le apparenze ed è in fibrillazione, diviso anche su una eventuale ripartizione dei seggi tra gli alleati. Nell’ultimo incontro ad Arcore FdI ha proposto, senza alcun accenno ai programmi comuni, il 50% dei seggi al proprio partito, il 30% alla Lega, il 15% a Forza Italia ed il 5% agli altri partiti minori. Una caporetto per Berlusconi, che però non gli impedisce di affermare che sarebbe una pazzia rompere la coalizione, oltre che un regalo alla sinistra. Che già nabiga da tempo in acqua agitate.
Insomma Meloni incalza gli alleati facendo valere la forza dei sondaggi ma Berlusconi e Salvini non ci stanno e ribattono che occorre studiare un modo per trovare le candidature comuni nei collegi elettorali. Candidature che tengano conto anche dei risultati alle precedenti elezioni, come le Europee del 2019, e dell’attuale consistenza parlamentare dei gruppi, nettamente favorevole a Lega e Forza Italia. In buona sostanza ogni partito gioca le carte più convenienti per raggiungere un faticoso accordo. Così non è più solo la Sicilia il pomo della discordia, ma lo saranno anche anche le prossime politiche.
Nonostante tutto i tre alleati concordano sulla comune contrarietà ad una futura legge proporzionale per le politiche. Delò resto il rosatellum, ormai, non garantisce stabilità né unità di intenti, pertanto non si comprende il perchè ci si debba opporsi ad una legge elettorale proporzionale. La riforma si adeguerebbe alla situazione reale che i partiti stanno vivendo per le loro incolmabili diversità. Peraltro la situazione è esattamente all’opposto di quando Berlusconi aveva creato la Casa delle Libertà, in quanto adesso c’è la destra-centro e non più l’esatto contrario. I tempi cambiano.
In ogni caso il rosatellum, con un terzo di maggioritario-uninominale, facilita la formazione delle coalizioni elettorali. L’election day del 12 giugno per adesso rallenta ogni riforma, in attesa di capire come finirà. Si dovranno infatti eleggere i sindaci di quasi mille Comuni e vedere se i referendum raggiungeranno il quorum necessario. Ma soprattutto si misureranno i rapporti di forza tra gli schieramenti e i partiti a pochi mesi dalle elezioni politiche.
Il centrodestra, che sconta ancora le frizioni sorte durante l’elezione del presidente della Repubblica, si presenta compatto in quasi tutti i comuni, con l’eccezione dei capoluoghi di provincia come Viterbo, Parma, Catanzaro e Verona. Alle amministrative si è arrivati alla chiusura delle liste senza che si sia tenuto un vertice tra i leader nazionali ma solo accordi tra dirigenti locali.
Il Pd ha stretto ovunque un’alleanza con Articolo Uno – Mdp e continua a guardare ad un rapporto con il M5s, con il quale ha stretto un accordo per la maggior parte dei Comuni. Ma le divergenze sulla guerra sono profonde e nei due partiti i dubbi su una alleanza di lungo periodo non sono residuali. Il M5s poi si presenta in pochissimi comuni con un proprio simbolo e quindi avrà un risultato percentuale scarso.
Tra i due schieramenti ci sono poi le formazioni di centro che hanno alleanze a macchia di leopardo. Siamo di fronte a un super-test per tastare il polso agli italiani, agli schieramenti politici, ai singoli partiti e ai loro leader a pochi mesi dalla fine di una legislatura complessa.