Ne rimangono fuori un centinaio che dovrebbero tornare in carcere. Si tratta di boss pericolosi e loro sodali che hanno ammazzato senza pietà centinaia di persone.
Milano – Il 22 settembre scorso è tornato dietro le sbarre Pasquale Zagaria, la mente economica del clan dei Casalesi, conosciuto anche come “Bin Laden”. Esattamente nella casa di reclusione di Milano Opera. Il 24 aprile scorso il camorrista era stato trasferito dal carcere di Sassari, dove era sottoposto al regime previsto dal 41 bis, a Pontevico in provincia di Brescia, presso la sua famiglia.
Una scarcerazione che, come quella di altri mafiosi e ‘ndranghetisti, è avvenuta durante l’emergenza Covid-19, a seguito della famosa circolare inviata il 21 marzo dal Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) agli istituti penitenziari e firmata dalla funzionaria di turno Assunta Barzacchiello, in cui si invitava a fornire all’autorità giudiziaria i nomi dei detenuti affetti da determinate patologie – nove in particolare – e con più di 70 anni di età.
Ovviamente per gli avvocati dei boss è stata un’occasione più che ghiotta per spedire agli uffici competenti le richieste di scarcerazione per i propri assistiti, soprattutto per i ”capi più anziani”. E così, dall’inizio dell’emergenza sanitaria, sono stati spediti ai domiciliari 376 tra condannati o individui in detenzione preventiva per reati di stampo mafioso. Nello specifico quattro erano detenuti al 41 bis: oltre Zagaria anche i due boss di cosa nostra Francesco Bonura e Vincenzo Di Piazza e quello della ‘ndrangheta Vincenzo Iannazzo. Tutti tre ritornati in galera.
Gli altri 372 appartenevano al terzo circuito dell’Alta Sicurezza, ovvero l’A.S.3 che ospita l’esercito delle mafie, con un totale di circa nove mila detenuti. Oltre a Zagaria erano usciti dai rispettivi penitenziari l’anziano e malato Rocco Santo Filippone, sotto processo per la stagione delle stragi del 1992-93, privo di braccialetto elettronico ma poi rispedito in cella e Francesco Bonura, uomo di fiducia di Bernardo Provenzano, affetto da gravi problemi di salute, dopo un mese e più rispedito in casa circondariale. Chi è stato realmente il responsabile della liberazione di criminali di tale caratura?
E vogliamo parlare del guazzabuglio creatosi con una clausola del Decreto Cura Italia che, al fine di ridurre i rischi di epidemia da Coronavirus nelle carceri, prevedeva la possibilità di scontare agli arresti domiciliari la pena detentiva residua non superiore ai 18 mesi? Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, accusato fortemente dall’opposizione di permettere ai mammasantissima di sedersi comodamente sul divano di casa, è stato oggetto di due mozioni di sfiducia: la prima presentata dal centrodestra, la seconda da +Europa. Entrambe, però, sono state respinte dal Senato.
E’ bene chiarire che la liberazione di Zagaria e compagni non ha nulla a che fare con i DPCM varati dal governo, in quanto escludono i detenuti mafiosi dal beneficio dei domiciliari. Questa tipologia di misura cautelare è stata concessa al boss della camorra sostanzialmente per una serie di motivi: l’uomo è sofferente di una forma tumorale e necessitava di cure specifiche che, causa virus, non potevano essere somministrate nel carcere in cui era recluso.
Men che meno nell’ospedale più vicino a Sassari, trasformato in un centro Covid. Pertanto le sue precarie condizioni di salute lo rendevano un soggetto ”a rischio” rispetto agli altri prigionieri. Ma diciamola tutta: alla base di questa clamorosa decisione c’è stata l’impossibilità per lo Stato di comprendere se il boss di Casal di Principe fosse nella possibilità di sottoporsi o meno alle terapie in altre strutture carcerarie.
Si dice infatti che il Dap, presieduto da Francesco Basentini all’epoca dei fatti, non abbia mai risposto al giudice di sorveglianza del Tribunale di Sassari Riccardo De Vito. Una sorta di fortuito corto circuito giudiziario degenerato poi in un rimbalzo reciproco di responsabilità tra i due magistrati che ha permesso il lusso del focolare domestico ad uno dei più spietati capi della criminalità organizzata campana.
Basti pensare che il sessantenne ”Bin Laden” nostrano è lo stesso uomo che nei primi anni del 2000 aveva trasferito il centro finanziario del clan a Parma, infiltrandosi in una serie di appalti pubblici miliardari. Condannato più volte si trova in carcere da 13 anni e dovrebbe restarci fino al 2027 ma, probabilmente, grazie ad alcuni sconti di pena, la sua liberazione verrà anticipata a metà del 2025. Eppure non sono bastati i due decreti del Guardiasigilli Bonafede che avevano imposto ai giudici le rivalutazioni periodiche delle posizioni degli scarcerati, per far ritornare dietro le sbarre gli esponenti malavitosi di spicco.
A quattro mesi dalla fine del lockdown, su 223 detenuti ai domiciliari, solo 111 sono di nuovo al fresco, tra cui Bonura, Iannazzo, il killer di cosa nostra Antonino Sudato e Franco Cataldo, carceriere del piccolo Giuseppe di Matteo. E’ altrettanto lunga la lista dei 110, tra boss e trafficanti di droga, che stanno ancora beatamente scontando la propria pena sui divani di casa. Fra questi Gino Bontempo, il rais della mafia dei pascoli che razziava i contributi europei per i Nebrodi.
Nel frattempo Bonafede ha ripristinato fortunatamente il 41 bis ma a seguito dell’ennesima rivolta carceraria – l’ultima a Benevento – i sindacati della penitenziaria hanno invocato il premier Giuseppe Conte per dichiarare ”lo stato di emergenza delle carceri”. La situazione, al momento, rimane immutata.
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