Istituzioni pubbliche e associazioni si sono unite per presentare in Europa un piano, l’ennesimo, per un’agricoltura sostenibile in vista della necessità di ridurre drasticamente le emissioni di anidride carbonica. Che sia la volta buona?
Roma – Sarà l’agricoltura del carbonio a salvare il pianeta? Oramai conosciamo come le nostre tasche il ritornello degli effetti negativi del cambiamento climatico sull’agricoltura e l’ambiente. Tant’è che l’unione Europea ha prefissato l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 55% entro il 2030, azzerandole entro il 2050. Dalle prime iniziative messe in atto entrambe le date potrebbero rimanere chimere. Trattasi ovviamente di impressioni, ma i primi sentori fanno propendere per quest’ipotesi.
Comunque, per quanto riguarda l’agricoltura, c’è un nuovo modo per coltivare la terra, ovvero l’agricoltura del carbonio, in inglese carbon farming. Oramai se non ti esprimi in inglese sei quasi un alieno e fa, come si dice, più figo. Vuoi mettere, in un consesso, parlare di carbon farming o di agricoltura del carbonio? La prima ti fa apparire quanto meno più competente. Valli a capire certi meccanismi!
Stiamo parlando di una pratica che sequestra il carbonio nella biomassa vegetale, utilizzando la naturale capacità del suolo di immagazzinare CO2. Usandola come sostanza organica si può arginare il riscaldamento globale, rendendo nel contempo il terreno più fertile.
Una rapida ricerca ci informa che durante la fase di crescita le piante assorbono CO2, che viene poi rilasciata quando muoiono. Nel caso del grano i residui delle spighe vengono sotterrati dai lombrichi o dagli agenti atmosferici. In questo modo la CO2 viene conservata sotto un manto di terreno. Partendo da questo processo, si è sviluppata la tecnica del carbon farming. Esistono vari modi per metterla in pratica.
Uno è la cover crop, coltura di copertura, colture che non vengono raccolte ma servono per coprire il terreno durante la stagione invernale. Un altro è il minimum tillage, lavorazione minima, con cui il campo viene arato solo in superficie per non permettere che la molecola intrappolata venga espulsa. I più entusiasti e galvanizzati da questa tecnica hanno stimato che sia possibile ingabbiare dalle 2 alle 2,5 tonnellate per ettaro che, secondo un calcolo approssimato, rappresenterebbero le emissioni annuali di una piccola utilitaria.
Nel frattempo un gruppo di lavoro composto da Confagricoltura, Crea, Università della Tuscia, Pefc Italia, Rete Clima, Cmcc e Terrasystem sta elaborando proposte per la creazione di un sistema informativo geospaziale, allo scopo di identificare il potenziale di mitigazione del settore agricolo e forestale. Il progetto, denominato C-Farms, è partito nel gennaio scorso ed entro 18 mesi andranno presentate le proposte all’Unione Europea, finanziatrice dello studio.
Si spera cosi che con questa pratica si possa contribuire a trovare soluzioni ai disastrosi effetti del cambiamento climatico mediante un’agricoltura più consapevole e responsabile. Però sorge un dubbio: era necessario questo parterre de roi, composto da scienziati, dotti e sapienti per utilizzare una pratica che esisteva già? Sarebbe bastato chiedere a un bravo contadino di una volta!