Il prefetto di Palermo aveva creduto nelle istituzioni sino alla fine. Ma aveva anche previsto come la mafia si sarebbe evoluta deponendo la lupara per giocare in borsa. Con figli e nipoti dai colletti bianchi.
Palermo – Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa conosceva molto bene la struttura di «cosa nostra», l’aveva analizzata approfonditamente e sapeva leggerla oltre le apparenze. L’allora colonnello aveva iniziato a studiare il fenomeno mafioso già molti anni prima che venisse nominato Prefetto di Palermo ed era il 1971 quando iniziò a scrivere il «Rapporto dei 114» (a cui collaborarono anche i vertici della Questura e altri nomi importanti della lotta alla mafia) contenuto in una pubblicazione edita dalla Dia (Direzione Investigativa Antimafia).
Di fatto l’importante documento anticipava quanto sarebbe emerso poi dal maxiprocesso del 1986. Nel 38esimo anniversario dell’attentato al generale dell’Arma dei Carabinieri, in cui persero la vita anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo, a parlare del «Rapporto dei 114» è stato il direttore della Dia, il generale Giuseppe Governale che ne ha sottolineato la grande attualità.
“…Dalla Chiesa – ha detto Governale – intuì che i segreti dei boss erano nei tesori nascosti…”. Il rapporto del generale Dalla Chiesa anticipava quella che poi fu l’intuizione del giudice Giovanni Falcone, ovvero di seguire i flussi di denaro per poter scoprire gli affari loschi di cosa nostra e arrestare i suoi boss. Con il «114» vi fera stata un’attenzione investigativa maggiore sui beni dei mafiosi ma non solo.
Il generale, allora a capo della Legione di Palermo, iniziava a vedere l’invasione degli affiliati di cosa nostra nel Nord Italia finalizzata a mettere le mani negli affari d’oro delle regioni più ricche quali la Lombardia ed il Piemonte.
Nel rapporto redatto dall’alto ufficiale, che oggi fa parte, insieme al Rapporto Sangiorgi, dei volumi pubblicati in edizione limitata e personalmente curati da Governale, si rappresenta una mafia che stava iniziando a depositare le lupare per mirare molto più in alto e ambire a controllare fette importanti dell’economia e della politica del Paese, pur rimanendo legata alle tradizioni e alle gerarchie delle «famiglie»:
“…Una mafia diversa – si legge nell’introduzione di Governale – dunque da quella descritta da Sangiorgi nel 1898, ma per certi versi sempre uguale. Uguale perfino a quella che nei successivi venti anni mieterà tantissime vittime, tra cui numerosi servitori dello Stato, come lo stesso Generale-Prefetto dalla Chiesa…”. Una mafia che non cambia e che adesso in Centro e Nord Italia ha messo le radici. Con parenti, amici e conoscenti.
Ti potrebbe interessare anche —->>
REGGIO CALABRIA – ‘NDRANGHETA STRAGISTA, L’OMBRA DEL CAVALIERE.