Dalla collaborazione con il marito Lino del Fra a quella con Pier Paolo Pasolini, la grande regista italiana ci lascia straordinari documentari che indagano la realtà fragile e vivace dell'Italia nel secondo dopoguerra.
Roma – “…Il documentario è il modo più libero di fare cinema e non solo dal punto di vista produttivo perché resta un genere povero: mantiene una permeabilità alle sorprese della realtà che la finzione non si può permettere proprio perché vincolata al denaro” . Cecilia Mangini.
Cecilia Mangini, nata a Mola di Bari nel 1927, si è spenta nella Capitale. Fotografa prima e regista poi, ha collaborato a lungo col marito Lino Del Fra, autorevole voce del documentario italiano, nel periodo che va dalla metà degli anni cinquanta alla fine dei settanta.
I due si sono da subito impegnati a raccontare l’Italia nascosta, marginale, lontana dai riflettori istituzionali. Nell’estate del 1952 raggiungono le Eolie per documentare le condizioni di vita e di lavoro sulle isole di Lipari e Panarea.
Nel 1962 firmano insieme a Lino Micciché “All’armi siam fascisti!”, che ripercorre l’ascesa e il declino del movimento fascista in Italia e le sue reviviscenze in epoca repubblicana ben oltre piazzale Loreto, fino all’appoggio al governo del democristiano Fernando Tambroni e ai moti di Genova del 1960.
Intanto, nel 1958, Mangini debutta alla regia con il cortometraggio “Ignoti alla città”, ispirato al romanzo “Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini e che segna anche l’inizio di una proficua collaborazione col poeta.
Insieme realizzano anche “La canta delle Marane” del 1962, considerato tra i migliori documentari della storia del cinema italiano. Si tratta di un delicato ritratto di giovani spensierati nella periferia di Roma, dei loro desideri fuori dalla modernità, la cui magia viene interrotta dalla comparsa improvvisa di due vigili.
Il film sul fascismo è commissionato dal Partito Socialista Italiano, a un passo dall’ingresso nella coalizione di governo, il quale non è però soddisfatto della militanza marxista espressa nel progetto realizzato. Infatti, Cecilia Mangini si lega a doppio filo con il pensiero della sinistra e proprio in questi giorni, in occasione del centenario del PCI, è tornato alla luce un altro dei progetti realizzati col marito: il lungometraggio di finzione “Antonio Gramsci – I giorni del carcere” del 1977, con Riccardo Cucciolla nei panni del protagonista.
Prima di prendersi la trentennale pausa che separa gli ultimi lavori dalla sua riscoperta più recente, si è occupata anche di Mezzogiorno con “Stendalì – Suonano ancora” (1959) e con “Maria e i giorni” (1960), di religiosità popolare con “Divino Amore” (1961), di condizione femminile in “Essere donne” (1964), di capitalismo compulsivo in “Felice Natale” (1965). Mentre gli anni della contestazione la vedono impegnata su temi quali l’eutanasia con “La scelta” del 1967 e il sistema scolastico con “La briglia sul collo” nel 1972.
Cecilia Mangini è stata la prima documentarista italiana della storia e ha attraversato la seconda metà del Novecento con gli occhi bene aperti sul cambiamento del paese.
Il suo è un cinema importante e straordinariamente vivace. Gli ultimi anni li ha vissuto da madrina del così detto “cinema del reale“, espressione che raggruppa una nuova generazione di autori interessati alla ricerca della realtà. Il documentario è sempre stato per Cecilia Mangini “…lo sguardo che cattura la verità, […] che acchiappa ciò che è unico”.
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