Gli avvocati di Alma Shalabayeva avevano chiesto alla Procura di Roma di ritardare il rimpatrio. Dopo un primo assenso la stessa Procura aveva firmato il nulla osta all’espulsione con un documento a doppia firma siglato dal Pm Eugenio Albamonte e dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone.
Perugia – Cinque anni di carcere all’ex questore di Palermo, Renato Cortese, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per la vicenda dell’espulsione dal nostro Paese di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, e della figlia Alua. Condannati alla stessa pena anche l’attuale capo della polizia ferroviaria Maurizio Improta, all’epoca responsabile dell’Ufficio immigrazione della questura di Roma e i funzionari di polizia Luca Armeni e Francesco Stampacchia. Due anni e 6 mesi di reclusione per Stefania Lavore, giudice di pace di Roma che aveva autorizzato il rimpatrio di Shalabayeva. Quattro anni al poliziotto Vincenzo Tramma, e 3 anni e 6 mesi al collega Stefano Leoni.
La sentenza è stata emessa dal tribunale di Perugia la scorsa settimana dopo 8 ore di camera di consiglio. Il presidente Giuseppe Narducci (a latere Emma Avella e il giudice onorario Marino Albani), ha stabilito che quello di Alma e Alua è stato un rapimento di Stato. La brutta vicenda, in parte ancora oscura, si era consumata tra il 28 ed il 31 maggio del 2013 quando la moglie di un dissidente politico kazako, Alma Shalabayeva e la figlia Alua, venivano arrestate e poi rimpatriate in Kazakistan contro la loro volontà. Le due congiunte erano però in possesso di permesso di soggiorno britannico valevole anche in Italia.
Successivamente si scopriva che erano state proprio le autorità del Kazakistan a chiedere il loro rimpatrio, previo arresto, tramite il personale del Viminale a cui gli stessi funzionari avevano già richiesto il fermo di Mukhtar Ablyazov (dissidente ed ex ministro). Non riuscendo a catturare l’uomo, nel frattempo riparato in Inghilterra, la polizia italiana rintracciava nella loro abitazione di Casal Palocco mamma e figlia che finivano sostanzialmente in “manette”. Le due congiunte venivano caricate a bordo di un aereo “privato” a spese dell’ambasciata kazaka e “spedite” in Kazakistan.
La donna e la bambina sarebbero rimaste nella loro terra per poco e senza diventare, per fortuna, merce di scambio per far rientrare in patria Mukhtar Ablyazov il cui destino sarebbe stato segnato. Alma e Alua rientravano in Italia come rifugiate grazie alla mobilitazione dei legali della donna e all’intervento di Emma Bonino, allora ministra degli Esteri. Dopo il polverone e la recente condanna, in primo grado, dei presunti responsabili che materialmente eseguirono gli ordini, le due donne si sono stabilite a Roma mentre Mukhtar Ablyazov è rimasto a Parigi.
Nel pomeriggio di quel terribile 31 maggio 2013, gli avvocati di Alma Shalabayeva avevano chiesto alla Procura di Roma di ritardare il rimpatrio. Dopo un primo assenso la stessa Procura aveva firmato il nulla osta all’espulsione con un documento a doppia firma siglato dal Pm Eugenio Albamonte e dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone. Una brutta pagina della nostra storia recente ancora sotto certi versi oscura e intrisa di giochi di potere e interessi occulti ma che ha visto sul banco degli imputati, in buona sostanza, i poliziotti che hanno sempre sostenuto la correttezza del loro operato:
”…Che Shalabayeva rimanesse in Italia, fosse trattenuta o espulsa, erano questioni che per l’allora capo della Mobile romana Cortese erano assolutamente irrilevanti – ha detto l’avvocato difensore Franco Coppi – il suo interesse era quello di catturare una persona che oggi da tutti viene indicato come un martire ma che, in quel momento, venne segnalato da tutti come un pericoloso delinquente, una persona che ha rapporti con terroristi, se non terrorista lui stesso, accusato di avere commesso reati patrimoniali di rilevante entità…”.
In effetti la storia politica dell’ex ministro kazako Ablyazov è stata sempre molto controversa e condita da intrighi internazionali e denunce per reati finanziari: ”…Abbiamo un’altra valutazione – ha detto il capo della Polizia, Franco Gabrielli – siamo in uno stato di diritto, ci sarà un appello e ci auguriamo che la verità processuale corrisponda alla nostra verità. Paura che paghino i poliziotti? Sì, non lo nego. Rispetto la sentenza anche se questo mi costa umanamente moltissimo perché conosco i colleghi…”. I poliziotti ed il magistrato condannati hanno annunciato il loro ricorso in Appello.
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