Il Bel Paese è il più vecchio d’Europa

Si vive di più ma con una qualità della vita molta bassa. La vita media si è allungata, ma a tutto vantaggio delle multinazionali farmaceutiche e dei centri di residenza per anziani. Vale davvero la pena diventare centenari?

Roma – L’Italia non è un paese per giovani! L’età media della nostra cara Italia si è allungata, tanto da farne uno dei Paesi più vecchi del mondo. Forse Matusalemme, uno dei patriarchi antidiluviani citati nelle Genesi, è nato dalle nostre parti! Pare sia vissuto fino alla veneranda età di 969 anni, per cui la locuzione viene intesa come qualsiasi essere vivente che raggiunga un’età molto avanzata. L’ultima edizione del rapporto sul Benessere equo e sostenibile (BES), a cura dell’Istat, ha evidenziato come l’Italia sia il Paese più vecchio d’Europa. Questa particolarità nel 2020 è stata controproducente, nel senso che l’anno della pandemia ha provocato il maggior numero di morti per abitanti.

L’Italia ha sofferto, soprattutto, nella prima ondata, mentre, nella seconda, tra settembre 2020 e gennaio 2021, a soffrirne i nefasti effetti sono stati i Paesi dell’Est Europa. Negli anni seguenti l’eccesso di mortalità ha seguito un andamento analogo con picchi meno pronunciati rispetto all’anno del killer, il 2020. Dal rapporto è emerso come la pandemia abbia mutato molti aspetti della vita quotidiana degli individui, delle famiglie, dell’organizzazione sociale e del mondo del lavoro. Ne sono scaturiti nuovi modelli e cambiamenti, i cui effetti si sono avvertiti sulla salute, l’istruzione, il lavoro, l’ambiente ed i servizi e, in ultima analisi, sul benessere degli individui.

Non poteva mancare uno sguardo sul mercato del lavoro. Il tasso di occupazione nel periodo pandemico tra la fascia d’età 20-64 anni ha subito una forte frenata, ma l’Italia ha segnalato percentuali più negative con perdite maggiori per il genere femminile. Il fatto che la pandemia abbia rappresentato una sorta di tsunami per la vita delle persone lo abbiamo avvertito sulla nostra pelle e stiamo ancora leccandoci le ferite. C’è un aspetto che merita considerazione. Quest’anno, per la prima volta nella storia, nel nostro Paese ci sono più signore 86eeni che bambine al di sotto di un anno. Le donne in età fertile per mettere al mondo figli sono in forte calo, così come il numero di figli per ogni madre.

La situazione demografica ha preso una brutta china, ma i decisori politici sembra che abbiano altro a cui pensare, forse a come conservare la cadrega! Nei prossimi vent’anni le stime prevedono una popolazione in età di lavoro che diminuirà di 6,8 milioni di persone, mentre è in aumento la popolazione pensionabile, pari a 6,6 milioni di cittadini. Nessuno sembra farsi carico dei costi necessari per invertire la rotta, che ci sta facendo precipitare in fondo al burrone. Che il nostro non è un paese per giovani, ne sono consapevoli soprattutto coloro che decidono di espatriare per trovare lo spazio loro negato in patria. Ma c’è, a mio avviso, un altro mito da sfatare, che riguarda l’invecchiamento della società.

E’ vero che l’età media non è stata mai così alta nella storia dell’umanità, almeno nei Paesi considerati più evoluti e con un welfare state all’altezza. La pubblicistica mainstream offre una spiegazione del fenomeno, enfatizzando aspetti quali le migliori condizioni di vita individuale e sociale ed il progresso delle scienze mediche. Ora, non si vuole mettere in dubbio questi dati di fatto. Ma, ci si è mai chiesti a quale prezzo si è ottenuto l’allungamento della vita? La gran parte degli ultraottantenni vive in condizioni precarie, nel senso che sopravvivono imbottiti di farmaci e hanno bisogno di assistenza continua.

E’ come vivere in un limbo. Si vive di più, ma con una qualità della vita molta bassa. Ne vale veramente la pena? E’ molto probabile che molti di loro avrebbero preferito, forse, interrompere la loro esistenza, piuttosto che vivere in un’atmosfera anonima. La vita media si è allungata, ma a tutto vantaggio delle grandi case farmaceutiche e dei centri di residenza per anziani. Altroché!

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