Il centrodestra dovrà decidere se Giorgia Meloni sarà o meno il capo della coalizione. A sinistra la litigiosità continua ma Enrico Letta è disposti a tutto pur di riportare la pace nel Pd dopo il divorzio dai 5 Stelle. Tranne che in Sicilia, ovviamente. Mario Draghi non spenderà il suo nome in campagna elettorale come simbolo di alcune liste.
Roma – Nel centrodestra rimane aperta la partita sulle regole d’ingaggio per le candidature e, soprattutto, quella sulla premiership. I leader dovrebbero vedersi presto in sede istituzionale, ma intanto gridano a gran voce di essere uniti, a differenza di una sinistra divisa e litigiosa ed invocano pari dignità nella coalizione e il rispetto delle regole.
Sullo sfondo c’è il nodo dalla ripartizione dei collegi uninominali con Lega, FI e i centristi dell’Udc e Noi con l’Italia, che ipotizzano la quota del 33% suddivisa equamente con FdI, mentre Giorgia Meloni vorrebbe mantenere la regola adottata fino alle scorse elezioni politiche del 2018, con candidature decise tenendo conto anche dei sondaggi.
Nel centrosinistra le acque sono parimenti agitate, soprattutto alla luce delle dichiarazioni di Letta che non perde mai l’occasione per ribadire che le strade del Pd si sono separate irreversibilmente da quelle del M5s. Il segretario del Pd chiude così definitivamente ad un’intesa elettorale con i grillini ed apre ad una coalizione che si chiamerà “democratici e progressisti”.
Il campo largo è ormai finito, è stato liquidato Conte. Si pone un veto verso Renzi dunque non rimane che orientarsi nell’alveo strettamente di sinistra che, peraltro, farebbe da contraltare alle destre anche se tortuoso per l’incoerenza di un percorso che trova la massima espressione in Sicilia dove il Pd non vuole rompere con il M5s dopo l’esito delle primarie per individuare il candidato alla presidenza della Regione.
Dopo aver chiuso con i grillini, Letta apre alle alleanze con il “centro draghiano” e schiaccia l’occhio a chi ha votato la fiducia a Draghi. Tra questi porte spalancate a Di Maio, Brunetta, Gelmini e Carfagna. Il minestrone politico è dietro l’angolo. Anche Calenda è corteggiato da Letta, dunque l’ex ministro dello Sviluppo dovrà scegliere, a breve.
Nei giorni scorsi Calenda era orientato a correre da solo alle elezioni ma l’invito del Pd verrà tenuto in considerazione anche se il nodo dell’alleanza non dovrebbe essere sciolto subito. L’apertura però c’è: “…Apprezzo – ha spiegato Calenda – il fatto che finalmente si sia detto no ai 5 stelle. Noi siamo pronti a discutere, ma con chiarezza sul gas e i rigassificatori o sui rifiuti e i termovalorizzatori. In caso contrario tradiamo l’idea dell’agenda Draghi…”.
Nello stesso tempo è esplicativa la dichiarazione di Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, che dice “prendiamoci gli elettori dei grillini”. Ma per farlo ci vuole una buona dose di populismo, fino a poco tempo fa molto avversata dai dem originari. Dichiarazione, in ogni caso, che conferma quanto più volte riportato su queste colonne, ovvero che la vera intenzione del Pd é solo quella di sfruttare la tendenza elettorale dei pentastellati. Per balcanizzarli e gettarli via purché ritorni il sereno al Nazareno.
Così è stato e l’occasione è stata offerta proprio da Draghi. D’altronde non si comprende che cosa voglia dire Letta quando afferma che “si vince con le idee”. E poiché queste ultime sono ballerine si vorrebbero prima conoscere, al di là degli slogan. Seguiremo le evoluzioni. Draghi adesso resterà in carica per gli affari correnti ma l’ex numero uno della Bce é strattonato dal centrosinistra e dal centro moderato.
Il Premier, però, si sarebbe sottratto al gioco dei partiti perché non voleva perdere il suo profilo super-partes e in questi giorni avrebbe già rifiutato la proposta di alcuni esponenti politici per usare il suo nome in eventuali liste da presentare. Resta il rammarico per non aver potuto portare a termine la sua missione negli ultimi mesi della legislatura. Ma tant’é.