Fino a quanto i mandanti delle stragi, i politici deviati, amici e sodali dei mafiosi meridionali godranno della libertà, l’Italia non raggiungerà mai la maturità politica e sociale. Memoria e storia sono due cose differenti e la seconda per antonomasia non può essere selettiva. E non potrebbe.
Bologna – Le 10.24 di un sabato afoso del 1980. Bologna è in preda all’esodo vacanziero e la stazione centrale rappresenta il crocevia della fuga verso ombrelloni e funivie. Un agglomerato di persone morte di caldo fissa il tabellone luminoso che riporta orari e destinazioni. Mentre altrettanti drappelli di individui aspettano trepidanti l’arrivo dei convogli che trasportano congiunti, parenti e amici. Fuori i rumori del traffico di sempre.
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Le 10.25. L’orologio sul frontespizio della stazione ferma il suo movimento, un boato straziante squarcia il cielo emiliano. Macerie e sangue ovunque: è esplosa una bomba. I taxi fuori dalla stazione si trasformano rapidamente in lamiere contorte di morte. Subito dopo è tutto un turbinio di urla dei superstiti miste a sirene di ambulanze e polizia. Tutt’intorno l’odore acre di corpi bruciati e dilaniati. Alla fine le vittime dell’attentato saranno 85 (di cui più la piccola è Angela Fresu di appena 3 anni, il più anziano è Antonio Montanari di 86) e, come avvenne per piazza Fontana e piazza della Loggia, da quell’infausto giorno la storia della Repubblica Italiana muterà per sempre. Sarebbe un errore, però, analizzare l’attentato in maniera circoscritta. La Strage di Bologna, così come gli innumerevoli eventi che scossero il Bel Paese dal ’68 fino a metà degli anni Ottanta, si colloca all’interno di quella dimensione che in alcuni ambienti storici viene definita come un preludio ad una potenziale guerra civile.
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L’Italia degli “anni di piombo” è un reticolo complesso dove alla strategia della tensione praticata dai movimenti della destra extraparlamentare, risponde la guerriglia di logoramento urbana esercitata dai gruppi rivoluzionari di stampo marxista-leninista all’indomani della celebre “svolta di Pecorile”. Ma non solo. Sono anche gli anni delle guerre di mafia in Sicilia, della maturità criminosa raggiunta dalla ‘ndrangheta e degli oscuri rapporti Stato-mafia che, ancora oggi, non risultano totalmente risolti. Per non parlare della P2. L’Italia di quei giorni è uno “Stato di mezzo”, dove gli interessi dell’Urss si scontrano e si incontrano con quelli americani e dove la stessa avanzata del PCI desta preoccupazioni per il mantenimento del bipolarismo internazionale:
“…Tra le precondizioni di lungo periodo – scrive il docente e ricercatore Giovanni Mario Ceci, esperto di terrorismo italiano tentando di analizzare le fondamenta del fenomeno del partito armato italiano – sono messi in evidenza innanzitutto alcuni aspetti fondamentali della cultura politica e della storia nazionale: la guerra civile italiana e le memorie conflittuali del fascismo e della Resistenza; la tendenza radicata e diffusa a percepire lo Stato come una debole e difettosa espressione di principi democratici: il perpetuarsi di un drammatico dualismo nello sviluppo del Paese tra un Nord industrializzato e un Sud agricolo; una coesione sociale decisamente fragile; l’esistenza e la forza di culture radicali e rivoluzionarie…Secondo un’interpretazione ampiamente condivisa nel dibattito internazionale di quegli anni, il terrorismo costituiva in effetti un elemento centrale e costante nella tradizione politica italiana…”.
Il legame tra terrorismo e politica, dunque, appare più che una semplice ipotesi. Al contrario sembra esistere una relazione indissolubile tra i due fenomeni, che rende difficoltosa la stessa ricerca della verità. L’attentato di Bologna probabilmente è l’espressione massima di questo oscurantismo: rappresenta nel concreto la volontà di chiudere ermeticamente la porta ad una fase storica che fa parte della Nostra Repubblica ma sulla quale è meglio non indagare. E così è stato. A quarant’anni dalla strage i coni d’ombra sulla tragica vicenda sono ancora tanti, forse troppi per un Paese come l’Italia. Infatti sebbene sembri essere ormai assodato che la paternità dell’attentato sia del gruppo di destra extraparlamentare Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari), ai quali per molti sarebbe ascrivibile anche l’omicidio del giovane romano Valerio Verbano, e gli esecutori materiali condannati in via definitiva siano Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ancora ignoti risultano essere i mandanti. Che siano spariti come le prove del tentato colpo di Stato ideato da Junio Valerio Borghese nel 1970 o come gli accertamenti sulla Strage di Ustica?
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La superficialità con la quale si sono svolte le indagini e i processi inerenti agli anni di Piombo potrebbe essere ricondotta a quella necessità di archiviare una fase storica conflittuale i cui geni sarebbero riconducibili ad una mai superata questione nazionale. In tale maniera si sarebbe tentato di insabbiare il coinvolgimento di importanti figure istituzionali italiane e di decontestualizzare una dimensione che non sarebbe errato ricondurre a una moderna e continuativa guerra civile. Come possiamo avere la certezza che chi pianificò l’attentato non sieda, o non abbia continuato a sedere per lungo tempo, tra gli scranni parlamentari? Magari promettendo ai responsabili materiali cospicui indennizzi economici e favori all’interno dei complessi carcerari in cambio del silenzio? E allora come non collegare organicamente alla strategia della tensione l’ingerenza delle organizzazioni di stampo mafioso che in quegli anni godevano di una quanto meno discutibile immunità?
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È senza dubbio giusto condannare gli esecutori materiali ma ciò non basta per poter superare quella fase storica. Per fare questo è doveroso risalire alle menti ideatrici del piano altrimenti l’Italia continuerà ad essere apostrofato come il Paese delle “mezze verità”. Non si può in alcun modo parcellizzare la storia, altrimenti si cadrebbe in errori grossolani e nelle chiacchiere da bar dello sport tanto invise a Umberto Eco. Ad esempio come valutare la questione triestina senza considerare il piano internazionale, lo scontro tra Stalin e Tito, la doppiezza storica di Togliatti e gli albori della Guerra fredda? L’Italia contemporanea paga ancora a caro prezzo quel periodo storico, come sconta ancora la questione meridionale mai affrontata in maniera specifica nel periodo dell’Unità. Possiamo dire che gli anni di piombo appartengano al passato? Assolutamente no. Fino a quanto i mandanti delle stragi, i politici deviati, amici e sodali dei mafiosi meridionali godranno della libertà, l’Italia non raggiungerà mai la maturità politica e sociale. Memoria e storia sono due cose differenti e la seconda per antonomasia non può essere selettiva.
Nel frattempo ci attendono ancora nuove e sterili speculazioni propagandistiche sulle stragi e sulla memoria delle vittime innocenti come quelle che l’anno scorso i rappresentanti della Lega di Cerea avevano ascrivendo l’attentato di Bologna alle Brigate Rosse. Ignoranza mista alla malizia. Se non peggio.
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