Il Partito Democratico e le tante anime dem devono trovare una soluzione ai mali che, da sempre, attanagliano il centro sinistra: evitare spaccature sulla questione delle alleanze e salvaguardare sia lo statuto che lo strumento delle primarie.
Roma – Il confronto nel PD è già partito, in attesa della sfida finale al congresso nazionale del 2023. Le diverse anime dem sono di fronte a un trivio, a una vera crisi d’identità: da un lato rappresentare la sinistra, dall’altro i riformisti per poi, magari, rappresentare entrambi, usando il termine un po’ abusato di “progressisti riformisti”. Tanto per unire formalmente un apparato le cui correnti sparano spifferi non indifferenti.
Evitare spaccature sulla questione delle alleanze e salvaguardare sia lo statuto sia lo strumento delle primarie sembra il primo passo. L’obiettivo è quello di chiudere a febbraio-marzo del prossimo anno. Ma sono in molti a pensare che stavolta il redde rationem tra sinistra e riformisti sarà definitivo, ovvero chi perderà il confronto congressuale farà probabilmente le valigie. Per unirsi a Conte o per raggiungere Calenda e Renzi nella nuova tendopoli dei riformisti.
Chissà se il sogno veltroniano si andrà ad infrangere sugli scogli dell’opportunismo. Vedremo, in ogni caso il PD a 15 anni dalla sua nascita si avvia all’ennesimo congresso per scegliere il decimo segretario, senza però ancora avere sciolto i nodi originari. Il confronto è tra la sinistra che strizza l’occhio al M5S di Giuseppe Conte e i dem che guardano con interesse al terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi.
Sino a oggi si è puntato tutto sulla costruzione di una casa dei riformisti che vedeva la convivenza tra diverse culture ed esperienze (quella socialista, quella cattolica e quella liberaldemocratica). Una casa che ha mostrato tanti limiti ma che ha cercato di unire e contaminare radici, che ancora oggi hanno difficoltà a integrarsi. Questo il vero problema e il motivo delle diverse correnti.
Comunque una parte dei riformisti è da tempo uscita dal partito. A cominciare dall’ex premier e segretario del PD Matteo Renzi e dal suo ex ministro Carlo Calenda. Dall’altra parte c’è chi non si rassegna a consegnare i libri contabili al tribunale fallimentare, per andare a fare i gregari di Conte.
La partita, dunque, è quella di immaginare un partito di sinistra alleato con Conte, per un polo alla Mèlenchon, che ritenga prioritaria la rappresentanza dei ceti più deboli ed emarginati, oppure un partito riformista con vista centro. È chiaro che è una questione di prospettiva, che comunque circa 15 anni addietro è stata la scommessa di Veltroni, cioè creare un partito che fosse entrambe le cose.
Appare anche evidente che forse l’amalgama tra le due anime piddine non è molto riuscita: la battaglia partirà dai congressi provinciali e regionali, ma se non si discuterà della visione e prospettiva che dovrà avere il Partito Democratico a nulla serviranno questi mesi di attesa verso l’assise nazionale. Sarebbe solo prolungare una lenta agonia. Certamente vi saranno più mozioni che permetteranno di ragionare sulla via da intraprendere, però il pericolo incombente che aleggia riguarda il dibattito che potrebbe essere relegato solo sul nominativo da sostenere per la scalata ai vertici. Nulla di più sbagliato, visto l’avvicendarsi dei segretari nazionali sempre immolati sull’altare sacrificale.
Allargare la piattaforma dem, oppure restringerla verso alcuni punti di riferimento tipici della sinistra, è il primo problema da affrontare. In ogni caso non sembra più all’ordine del giorno il “campo largo”, ma solo come affrontare l’opposizione al governo eletto. Si presume, comunque, che si navigherà a vista, con delle occasionali convergenze con Conte e Calenda. Il percorso congressuale aprirà tante porticine sino ad ora rimaste socchiuse. E che si spera possano determinare un confronto che faccia uscire dal proprio orticello spingendo il partito verso un orizzonte più chiaro che incarni la vera trasformazione sociale in corso.