Il massacro della giovane bavarese

Il 2 Maggio 1963 viene rinvenuto il cadavere di una giovane donna straziato da sette coltellate. Il proscenio del fattaccio è un palazzo di lusso nei pressi di via Veneto, epicentro della Dolce Vita. Dopo più di 20 anni di indagini e decine di piste battute, ad oggi restano decisamente più domande che risposte.

Roma – C’è stato un momento storico in cui la Città Eterna rappresentava il crocevia di stelle del cinema, vere o presunte, ma anche di artisti, filosofi e di una certa decadenza. Roma come sinonimo di rivoluzione, di consapevolezza libertina e di miracolo italiano. Felliniano splendore che attirava giovani sognatrici come la luce attira zanzare. Il sogno di Christa Wanninger, ventiduenne modella tedesca, s’infrange nel maggio del 1963 in un lago di sangue.

Un grido agghiacciante squarcia l’aria di un sonnolento pomeriggio di maggio. Quel grido proviene dal quarto piano di un palazzo di via Emilia e a urlare con tutto il fiato che aveva in gola è una bella ragazza ormai agonizzante. Il suo vestito verde pisello è lacerato da sette coltellate e le trame della stoffa sono intrise del suo sangue. Il corpo ancora rantolante si trova sul pianerottolo, di fronte all’appartamento dell’amica Gerda Hodapp. I portantini giunti sul posto vengono diretti al piano dalla portinaia che, visibilmente sconvolta, indica loro la rampa di scale per raggiungerlo. Su quella che oggi è considerata la “scena del crimine” sono presenti carabinieri, polizia e uno sparuto gruppo di vicini curiosi e ovviamente quel bellissimo corpo martoriato da una lama bene affilata. Christa Wanninger giunge in ospedale troppo tardi, nel frattempo è sopraggiunto il decesso.

Christa a destra con la sedicente amica Gerda Hodapp

La pista da “manuale”

Gli agenti presenti su pianerottolo bussano alla porta di Gerda Hodapp, quella stessa porta a cui stava per bussare la Wanninger prima di essere trucidata. La donna sviene alla vista della mattanza, una volta rinvenuta viene condotta in questura e sentita dal capo della mobile Domenico Migliorini, che conduce le indagini. Il volto di Gerda Hodapp appare sbattuto, le occhiaie pesano sugli zigomi. Lei stessa ammette che ha fatto le ore piccole, che ha sentito la Wanninger rientrare intorno alle 12.30 e che le due si erano date appuntamento nel pomeriggio. Migliorini conosce la Roma felliniana e indirizza l’interrogatorio sulla vita notturna di via Veneto, a pochi passi dal luogo dell’omicidio. Il viso della Hodapp tradisce la stessa conoscenza della movida ante litteram, e comincia a raccontare di quella scintillante suburra di artisti, magnati e uomini dello Stato e delle loro scorribande. Viene fuori che Christa Wanninger è un’aspirante fotografa e modella e che quel mondo lo conosce e lo frequenta assiduamente. Anzi, a suo dire, la vittima è spesso in compagnia di diversi uomini, uno di questi è Angelo Galassi che si professa suo fidanzato e che forse non tollera più la vita libertina della “sua” Wanninger.

Il palazzo della via Emilia, teatro della tragedia

La prima pista che si palesa agli inquirenti è quindi una pista da “manuale”, ovvero il fidanzato geloso. Il rapporto tra i due infatti viene descritto come burrascoso e come i problemi maggiori fossero causati dalla gelosia di Galassi. Alle 16 del giorno stesso due “gazzelle” dei carabinieri si trovano parcheggiate in via Panama, nello spiazzo davanti al civico 110, indirizzo di residenza del sospettato. Il fidanzato della vittima scende dalla sua Volkswagen bianca appena prima di essere prelevato e portato in questura per deporre. Il dottor Migliorini si trova davanti un uomo distrutto dalla notizia del delitto; Galassi dice che sì la notte prima lui e la Wanninger hanno discusso, ma che in seguito le acque si erano calmate tanto da trascorrere la serata assieme. L’uomo afferma di aver accompagnato Christa in via Sicilia, presso la pensione dove risiedeva, intorno alle 4, e di averla vista davanti al portone per l’ultima volta. L’alibi, più che solido, viene confermato da diversi testimoni dunque la sua testimonianza può ritenersi veritiera. Galassi è sincero, non altrettanto sincera viene ritenuta la Hodapp. Più si tenta di scrutare nella vita privata della Wanninger più le risposte della donna divengono fumose. La reticenza della connazionale la porta dritta verso l’arresto per favoreggiamento. L’accusa cadrà poche settimane dopo.

Guido Pierri

La pista del pittore

Passa un anno e il suono stridente del telefono riecheggia tra le pareti della redazione del quotidiano “Momento Sera“. Ad alzare la cornetta è il giornalista Maurizio Mengoni, dall’altro capo del filo uno sconosciuto si presenta come il fratello di colui che ha compiuto l’omicidio della Wanninger. L’uomo dichiara di avere le prove di quanto afferma: nelle sue mani ci sono alcuni diari redatti dal killer in cui si descrive minuziosamente questo ed altri delitti. Consegnerà i manoscritti in cambio di cinque milioni di lire. Il giornalista riesce a tenere al telefono l’uomo quanto basta per farlo rintracciare dai poliziotti della Mobile. L’interlocutore sta chiamando da una cabina telefonica di piazza San Silvestro, si chiama Guido Pierri, artista, e in tasca ha un coltello a serramanico al cui lama è compatibile con le ferite sul corpo della Wanninger. All’interno della sua abitazione, oltre a dipinti dalla natura violenta e misogina, gli inquirenti trovano alcuni diari in cui il Pierri dà sfogo alle sue più macabre fantasie. Tra quelle pagine infatti si celano fantasie di femminicidi, inquietanti schizzi e la confessione dell’omicidio di Christa Wanninger.

Il sospettato viene torchiato dal dottor Migliorini. Pierri afferma che i diari sono la bozza di un romanzo giallo e che sì, quei pensieri traggono ispirazione dal caso Wanninger, ma che non sono altro che inchiostro su carta. Per quanto riguarda la chiamata e la richiesta di denaro, Pierri afferma che non si è trattato altro che di un escamotage per racimolare qualche soldo, vista la sua situazione d’indigenza. Migliorini crede di avere tra le mani il colpevole, ma il quadro probatorio è debole e non regge. Pierri verrà accusato solo di tentata truffa e porto d’armi abusivo; l’uomo sconterà solo due mesi di carcere prima di riassaporare la libertà.

Renzo Mambrini. Dal Corriere della Sera dell’epoca

È il 1973, la Roma della Dolce Vita lascia spazio agli “Anni di Piombo“, nell’Italia delle stragi di Stato e della lotta politica armata, il caso Wanninger pare solo un lontano ricordo appartenente ad un’altra epoca. Ma non per tutti. In quella Roma violenta bene descritta nell’omonimo film di Marino Girolami e interpretato dall’indimenticabile “commissario” Maurizio Merli, c’è un uomo assai particolare. E’ un ex maresciallo dei carabinieri nonché ex addetto stampa del generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo (coinvolto nel piano eversivo “Solo“) e si chiama Renzo Mambrini. Quest’ultimo ha scelto il prepensionamento per dedicare un libro al caso Wanninger e, a detta sua, per rivelare nuovi dettagli sul delitto. Mambrini addita il Pierri come colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, e sottolinea come il pittore non avesse un vero e proprio alibi al momento del delitto e come nei suoi macabri scritti vi siano dettagli sull’omicidio che solo il colpevole poteva conoscere. Il caso viene riaperto.

Il 1976 viene disposta una perizia psichiatrica dalla quale Pierri esce con la diagnosi di schizofrenia. Viene arrestato il 5 maggio 1977 con l’accusa di essere l’assassino di Christa Wanninger. Ancora una volta l’assenza di un quadro probatorio solido porta la Corte d’assise a deliberare la scarcerazione dell’artista il 10 gennaio 1978. Passano altri lunghi anni, 7 per l’esattezza, quando la Corte d’assise d’appello ribalta la sentenza. Pierri ha ucciso Christa Wanninger dopo averla pedinata, in preda ad un raptus causato dalla sua condizione schizofrenica. Il 15 marzo 1988 la Cassazione conferma la sentenza. Pierri è colpevole, ma non imputabile a causa del suo quadro clinico, inoltre, non essendo riconosciuto schizofrenico da ulteriore esami, non può essere assegnato ad una struttura psichiatrica. Pierri è dunque un killer, ma libero. La bizzarra sentenza sollecita immediatamente le teoriche dietrologie riguardanti servizi segreti, uomini di Stato e insabbiamenti. Cose all’italiana.

Una pattuglia della Squadra Mobile dell’epoca. Archivio Mininterno

La pista dell’uomo in blu

Il pomeriggio del 2 maggio 1963 c’è un grande trambusto al numero 81 di via Emilia. All’esterno del palazzo si vocifera che sia morta una turista americana mentre i paramedici entrano trafelati dal portone. I soccorritori salgono al quarto piano seguiti da alcuni vicini curiosi. Quel giorno tutti stanno salendo al quarto piano, tutti tranne un uomo che invece le scale le sta scendendo con calma serafica. I testimoni dello stabile e qualche passante in cerca di emozioni che lo incrociano descrivono lo sconosciuto come un uomo distinto vestito con un elegante abito blu. Sarà proprio il colore di quel vestito al centro di numerose speculazioni; l’abito blu è quello della festa, dei grandi eventi, dei politici e degli uomini di Stato.

Le ombre s’addensano quando il nome della Wanninger salta fuori in alcuni fascicoli acquisiti dalla magistratura riguardanti la strage di piazza Fontana del 1969. S’addensano quando si scopre che alcuni conoscenti della Wanninger sono attenzionati dall’Interpol per traffico d’armi e segreti industriali. E S’addensano pure quando si scopre che il fidanzato dell’epoca di Gerda Hodap era sotto sorveglianza per mano del Sifar (Servizio informazioni forze armate) a capo del quale sedeva il generale De Lorenzo, lo stesso che aveva come capo ufficio stampa il buon Mambrini, lo stoico accusatore di Pierri.

Il generale Giovanni De Lorenzo

Le speculazioni su un possibile insabbiamento si moltiplicano. Mambrini, il più profondo conoscitore del caso, muore in uno strano incidente stradale e l’opinione pubblica rimane fortemente spaccata sugli esiti processuali del caso Wanninger.

C’è una bellissima donna e si trova riversa in un lago di sangue su di un pianerottolo in un palazzo della Roma bene. C’è un colpevole però che non ha pagato. C’è un intrico di poteri elitari a cui può essere sfuggita la parola sbagliata, raccolta da orecchie sbagliate. C’è un grande buco nero che inghiotte tutto e ci lascia con tante domande a cui mai avremo risposte. Li chiamano cold-case.

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email
Stampa