Negli ultimi anni si è assistito a un incremento del numero degli ordini professionali, nonostante da decenni si parli dello loro abolizione. Al contrario, pare che ne esista uno per ogni categoria lavorativa.
Il tema delle liberalizzazioni per l’accesso alle professioni in Italia è sempre presente a ogni campagna elettorale e nell’agenda politica di chi viene investito del compito di governare. Ogni volta che si tenta di mettere mano a una qualsiasi riforma degli ordini professionali e delle professioni compaiono però, a mo’ di usbergo, tutta una serie di ostacoli, lacci e lacciuoli delle relative corporazioni per far restare le cose come sono.
“…Siamo pronti a scendere numerosi in piazza per difenderci da un vero e proprio attacco antidemocratico…” gridò indignato, nel 2006, Maurizio de Tilla, ex presidente nazionale della Cassa di assistenza e previdenza forense, in occasione della riforma Bersani sugli ordini professionali. Nel gennaio 2009 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato concluse un’indagine conoscitiva su diversi ordini professionali, rilevando una loro forte resistenza per l’attivazione dei principi concorrenziali in materia di servizi professionali contenuti nella riforma Bersani (legge 248/2006).
Nati come istituzioni di autogoverno di una professione allo scopo di garantirne la qualità, ad essi lo Stato affida il compito di tenere aggiornato l’albo e svolgere le funzioni disciplinari per tutelare la professionalità della categoria. Sono enti pubblici autonomi sotto la vigilanza del Ministero della Giustizia, dotati di un consiglio direttivo, un presidente, un segretario, un tesoriere e anche casse di previdenza.
Qualche anno fa, il giornalista Franco Stefanoni, in un brillante pamphlet dall’eloquente titolo “I veri Intoccabili” (Chiarelettere Editore), ha raccontato fatti e misfatti dei liberi professionisti e degli ordini professionali:
“…La metà dei componenti del parlamento italiano è iscritto a un ordine professionale. Un vero e proprio gruppo trasversale da poter formare il partito dei professionisti. Si parla di più di 2 milioni di persone divise in 28 categorie: avvocati, medici, notai, ingegneri, giornalisti, farmacisti e chi più ne ha più ne metta… Hanno enti previdenziali propri, un patrimonio di circa 50 miliardi di euro in beni immobili e titoli finanziari. Gli ordini professionali rappresentano un mondo chiuso e ancora poco sviscerato. Una roccaforte di privilegi con meccanismi e regole scritte e non scritte e con modalità di accesso non sempre trasparenti e sanzioni disciplinari che arrivano con notevole ritardo. Sorti con l’intento di difendere il cittadino/consumatore, gli ordini professionali, nei fatti, proteggono solo se stessi, tramandandosi il potere quasi in maniera ereditaria: il 44% degli architetti è figlio di architetti, il 41% dei farmacisti di farmacisti, il 37% dei medici di medici e così via…”.
“… La riforma delle professioni è come l’autostrada Salerno-Reggio Calabria: si è sempre in coda e con lavori in corso. Lo stesso spettacolo da sempre…” sentenziò, quasi compiaciuto, Michele Giuseppe Vietti, ex componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura. A rafforzare questa impressione, se si analizza il tema, emerge un quadro allarmante. Ne sono un esempio gli esami di stato: nati come fondamento degli ordini a garanzia della professionalità ed eticità degli iscritti, sono spesso truccati e pilotati. Per il mantenimento di una burocrazia pletorica i costi sono davvero elevati, giustificati con la diversificazione delle entrate: quota d’ingresso; quota per partecipare a congressi e aggiornamenti; proventi per servizi di consulenza agli iscritti e per improbabili casse previdenziali. A ciò si aggiungono spese per viaggi e congressi e quelle per i consiglieri e amministratori, bilanci di gestione che, come comune in Italia, non rispondono ad alcun principio di trasparenza.
Negli ultimi anni, a proposito di lacci e lacciuoli, gli ordini professionali hanno introdotto surrettiziamente le cosiddette tariffe di riferimento, un parametro sul quale orientare i prezzi e non stabilirli, come si faceva prima, con tariffe minime. Col tempo, per alcune categorie, questi riferimenti sono diventati però di fatto vincolanti, facendo scattare interventi e sanzioni da parte dell’Antitrust contro coloro che se ne discostano.
Una deregulation generalizzata, secondo i difensori dello status quo, può provocare uno scadimento della qualità professionale. È un rischio che, in effetti, può manifestarsi. I fautori delle liberalizzazioni tout court confidano, invece, nelle miracolose capacità di autoregolamentazione del mercato. In questo caso, può avere un senso l’esistenza di enti come gli ordini professionali, per la tutela della qualità dei servizi e della competenza professionale degli iscritti. Ora, la questione di fondo è: davvero la qualità è ben osservata, regolata e gestita? Una seria e rigorosa riforma delle professioni e degli ordini dovrebbe tener conto anche di quest’aspetto, di certo non secondario.
In Europa, ad esempio, il sistema che regola gli ordini professionali è meno asfissiante di quello di Italia e Grecia, due dei Paesi con il maggior numero di ordini. È questa la vexata quaestio e non altre! Uno snellimento delle professioni e una seria attività di controllo sui meccanismi d’accesso potrebbe favorire l’ingresso di nuove risorse umane. Quel che è certo è che le varie categorie professionali hanno occupato tutti i settori nevralgici del Paese, politico, amministrativo ed economico, controllando dall’interno il sistema e rendendo vano ogni tentativo anche parziale di cambiamento.
È molto desolante per il comune cittadino constatare che tra banche, compagnie di assicurazione, ordini professionali e altri gruppi di pressione, la situazione è di difficile soluzione, mentre è facile per la nomenklatura dei soliti noti, fino a quando i suoi interessi saranno sempre più consolidati e protetti. A discapito delle libertà del cittadino, della competenza e del merito di ogni serio professionista che tenta di fare il suo ingresso nel mercato del lavoro. Cui prodest?