Forse identificato l’assassino dell’appuntato

Le nuove indagini, grazie all’apporto degli esperti del Ris e della nuova tecnologia, potrebbero portare ad una svolta nell’omicidio del graduato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, ferito a morte durante il conflitto a fuoco con due brigatisti. Uno sarebbe fuggito mentre Mara Cagol rimase uccisa nella sparatoria.

Melazzo – Sono passati quarantasette anni dalla sparatoria in cui morirono Margherita “Mara” Cagol, 30 anni, moglie di Renato Curcio, uno degli ideologi-fondatori delle Brigate Rosse, e l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, 45 anni, originario di Penne, sposato con tre figli. Il 5 giugno 1975 i carabinieri eseguivano un blitz nella cascina Spiotta d’Arzello, ubicata nell’omonima frazione del Comune di Melazzo, dove i terroristi rossi tenevano prigioniero l’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima. Il triste episodio passava poi alla ribalta della cronaca nera e politica come il primo sequestro di persona a scopo di finanziamento del noto gruppo eversivo.

Cascina Spiotta dove avvenne il conflitto a fuoco tra carabinieri e brigatisti rossi.

A quasi cinquant’anni da quel conflitto a fuoco i carabinieri del Ris di Parma potrebbero dare un nome a chi partecipò a quello che è passato alla storia come il primo sequestro di persona a scopo di autofinanziamento operato dalle Brigate rosse. Un uomo, verosimilmente appartenente al gruppo di brigatisti, riuscì a fuggire ed è rimasto non identificato ma il suo nome potrebbe saltare fuori a seguito delle nuove indagini condotte dai carabinieri del Ros e coordinate dalla Procura di Torino e dalla Direzione investigativa Antimafia, grazie all’esposto di Bruno D’Alfonso, anche lui carabiniere e figlio del coraggioso graduato perito in ospedale dopo una breve agonia:

Giovanni D’Alfonso

”…È una questione di giustizia e di verità storica – ha detto D’Alfonso – anche per onorare la figura di mio padre, un eroe che diede la vita per le istituzioni…”. Il 4 giugno era stato rapito il “Re delle Bollicine” figlio del proprietario dell’omonima famosa casa vinicola. I due brigatisti nascosero Gancia in una cascina alla periferia di Melazzo ritenendosi al sicuro e lontano da occhi indiscreti. La mattina dopo una pattuglia radiomobile dei carabinieri notava le auto fuori dal fabbricato rurale e decise di fare irruzione. I brigatisti, Mara Cagol in testa, risposero al fuoco con armi automatiche e bombe a mano.

I militari, forse spiazzati dalla potenza di fuoco dei malviventi, ebbero la peggio: il tenente Umberto Rocca perse un braccio e un occhio, il maresciallo Rosario Cattafi rimase ferito, l’appuntato Pietro Barberis ne uscì illeso mentre l’appuntato D’Alfonso venne ferito a morte e nonostante gli sforzi dei sanitari il militare spirava alcuni giorni dopo in ospedale.

Mara Cagol

Fuori dalla cascina rimase uccisa Mara Cagol ma il suo complice riuscì a sfuggire alla cattura, forse passando dal retro dell’edificio per poi sparire nella boscaglia. L’uomo, a cui potrebbe appartenere l’impronta digitale scoperta con le nuove tecniche investigative all’interno della cascina, riusciva a ricontattare i compagni a cui inviava una relazione scritta relativa alla sparatoria poi rinvenuta nel covo milanese delle Brigate Rosse in via Maderno. Lo stesso nascondiglio dove sei mesi dopo veniva arrestato Renato Curcio.

Qui la vicenda si complica: pare che nella relazione ci fosse scritto che i carabinieri aveva eseguito una vera e propria esecuzione ammazzando la Cagol a sangue freddo e una volta disarmata ma tale evento è sempre stato smentito dai militari superstiti. Anzi il tenente Rocca pare avesse riconosciuto il brigatista fuggiasco, poi divenuto dirigente delle Br, arrestato per altre azioni criminose, incarcerato e oggi uomo libero. Ma chi poteva confermare questa versione dei fatti, l’appuntato Berberis, moriva nel 2003 dunque la testimonianza dell’ufficiale si rivelò insufficiente. I Ris stanno analizzando anche la macchina da scrivere che sarebbe servita al fuggitivo per scrivere la famosa relazione e il documento autentico nell’intento di scoprire altre tracce con l’ausilio dell’alta tecnologia:

Renato Curcio

”…A noi interessa una piena ricostruzione dei fatti — spiega l’avvocato Sergio Favretto, legale di fiducia della famiglia D’Alfonso — che all’epoca non fu possibile perché le indagini furono inspiegabilmente chiuse in tutta fretta…”. Un sospettato dunque c’è e su quella impronta digitale scoperta in cascina si stanno effettuando le comparazioni del Dna. Gli investigatori stanno conducendo anche una serie di interrogatori ad ex brigatisti, compreso Patrizio Peci, poi collaboratore di giustizia, ma pare che sino ad oggi, nonostante qualcuno di loro sappia la verità, non sarebbe emerso nulla di interessante. Ma c’era da aspettarselo.

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email
Stampa