Cari ideali, dove siete finiti?

Negli ultimi vent’anni ci siamo progressivamente spostati dalla speranza alla paura, dalla voglia di crescere all’impulso a trattenere e conservare. Il populismo e le forze politiche che lo generano hanno alimentato questa enorme perdita valoriale.

Roma – Essere progressisti o conservatori non è più un ideale reale da perseguire qualunque cosa accada. E’ rimasta piuttosto un’utopia, un’autentica incompiuta utopia che, pian piano, sta dissolvendosi del tutto per trasformarsi in chimera. Insomma manca una visione reale della società.

Il fatto è che ormai ci orientiamo, molto spesso inconsapevolmente, in relazione al momento che stiamo vivendo. Ci sono movimenti e partiti che vorrebbero puntare sulle differenze e le diverse trasfigurazioni dei due concetti, ma non riescono ad avere quel consenso che potrebbe rilanciare la sfida. L’ondeggiare, il galleggiare della politica, con la consequenziale perdita delle proprie radici, ha determinato uno scollamento valoriale che si riverbera nei nostri comportamenti con un automatismo involontario.

La fiducia nel futuro della nostra società è ridotta al lumicino e questo è un problema. Si sta vivendo in una bolla emergenziale da troppi anni: l’ideale sarebbe che la maggioranza delle persone ritrovasse la speranza di migliorare la propria condizione, mentre a farla da padrone è la paura di perdere quello che si ha. In sostanza, se non si spera di poter migliorare la propria vita, l’unica alternativa è non peggiorarla. In pratica se il progresso non è possibile, è meglio non muoversi.

Le vittorie della sinistra nascono dal desiderio di ottenere quello a cui si pensa di avere diritto, quelle di destra dal desiderio di conservarlo. Oggi, invece, si sciopera per non peggiorare la propria vita, non per migliorarla. I più poveri, gli “invisibili”, non avendo nulla da perdere, quindi da conservare, hanno votato soprattutto Movimento 5 stelle, Lega e Forza Italia, nella speranza di raggranellare qualche reddito di cittadinanza, pensione o dentiera.

È tutta la società che, per paura, si sposta verso la conservazione. Tutti un tempo potevano credere di diventare più felici, di affermarsi e creare quelle competenze necessarie che ci avrebbero potuto permettere di essere parte attiva di una società competitiva e migliore. La passione era il vero motore che permetteva di coprire sacrifici, debolezze e difficoltà. Ora invece si ha solo nostalgia di un tempo in cui si credeva veramente di potersi realizzare ed essere felici.

Non c’è, dunque, da essere allegri, ma neanche da scoraggiarsi. Non rimane che rimboccarsi le maniche ed andare avanti con fiducia. Negli ultimi vent’anni ci siamo progressivamente spostati dalla speranza alla paura, dalla voglia di crescere all’impulso a trattenere e conservare.

Il populismo e le forze politiche che lo generano hanno alimentato questa perdita valoriale. Inseguire gli umori, a volte più reconditi, non vuol dire essere bravi legislatori ma solo amministratori unici di una organizzazione politica che ha lo scopo di fare utili attraverso il consenso. Il consenso ad ogni costo è il comune denominatore che poi ha portato alcuni partiti ad essere delle banderuole al vento.

Diventa indispensabile dunque ascoltare i membri della società per condividere strategie e visione, e non solo per farsi trasportare dai bisogni a breve termine. Sino ad oggi non si è più dialogato ma solo interpretato (e male) il disagio sociale. Il cittadino-elettore deve essere accompagnato nei vari processi di trasformazione e modernizzazione, ma se nessuno osa intraprendere questo difficile cammino non si andrà molto lontano. Nessuno può fare previsioni realistiche sulla crescita e sugli effetti del rialzo dei prezzi dopo la scelta scellerata dei russi. Servirà da parte del prossimo Governo una generale e vasta convergenza sulle scelte, anche con le forze di opposizione. C’è bisogno di serietà, unità e responsabilità su energia e finanza pubblica, così come per il welfare.

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