Col forte calore si lavora male. E non è certo una notizia. Quello che c’é da approfondire invece è la correlazione tra esposizione al caldo, malattie croniche e incidenti sul lavoro. Il quadro che si prospetta non è affatto roseo.
Roma – L’ondata di caldo dell’ultimo periodo ha raggiunto temperature record e, oltre, a quelli ambientali, crea problemi nell’organizzazione del lavoro. Già nel 2022 l’Inps e l’Inail avevano diffuso una nota in cui emergeva che, per combattere il caldo intenso, le attività lavorative svolte all’aperto potevano essere sospese, con richiesta di cassa integrazione.
La nota, ripresentata quest’anno, indica temperature maggiori di 35°C, in mancanza di strumenti idonei a ridurre il rischio di colpi di calore. Questa misura riguarda una serie di lavoratori che svolgono mansioni rischiose. Nel dettaglio, gli operai dei cantieri edili e quelli stradali e, generalmente, tutte le fasi lavorative che vengono svolte in zone dove è impossibile ripararsi dal sole o prevedono l’uso di materiali o di lavorazioni che non tollerano il calore estremo.
L’emergenza riguarda tutta l’Europa e buona parte degli USA ed è legata al cambiamento climatico. È stato approntato, finanche, un sistema di previsione dello stress da calore per la verifica dei rischi professionali, tramite i bollini rossi. Inoltre, Inail e Cnr (Centro nazionale ricerche) hanno perfezionato il progetto “Worklimate 2.0”, che valuta l’impatto dello stress termico ambientale sulla salute e produttività dei lavoratori.
Attraverso mappe, vengono individuate le aree geografiche dove si concentrano i maggiori rischi. L’anno scorso, sulla prestigiosa rivista Nature Medicine, è apparso uno studio in cui vengono stimati sessantamila decessi su scala europea legati al caldo. Anche il resto d’Europa sta pensando alle misure da adottare per arginare il caldo eccessivo.
L’Associazione federale dei medici del servizio sanitario pubblico tedesco, ha invitato i lavoratori “ad alzarsi presto, lavorare in modo produttivo la mattina e concedersi una siesta il pomeriggio”. Una rivincita della “pennichella”, ossia il sonnellino postprandiale, abitudine mediterranea dai comprovati benefici sull’umore e sulla produttività. Un saggio ritmo di vita e di lavoro, che abbraccia i bisogni del corpo e della mente, senza esasperarli con l’attività lavorativa.
Comunque, nonostante gli sforzi, il quadro normativo resta incerto. Ad esempio, in Spagna, previo accordo tra datori di lavori e lavoratori, il lavoro con sforzo fisico è considerato sicuro dai 14 ai 25°C. Tentativi simili sono presenti in altri Stati. La scorsa estate la Confederazione dei sindacati europei (Etuc) aveva invitato la Commissione europea a fissare una temperatura massima a cui un lavoratore può esporsi, in modo da avere un dispositivo normativo continentale.
L’agenzia europea Eurofond in un suo studio aveva evidenziato come il 23% dei lavoratori dell’Ue fosse esposto in certe circostanza a temperature elevate durante i turni di lavoro. In agricoltura si giungeva al 36%, mentre nell’edilizia al 38%. Le criticità maggiore sono la stretta relazione tra esposizione al caldo, malattie croniche e incidenti sul lavoro.
Secondo stime diffuse dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, lavorare con oltre 30° di calore, il rischio di un errore cresce dal 5 al 7%. Oltre i 38°, la forbice va dal 10 al 15%. Ora questa situazione è conosciuta da anni, se non da decenni. Provvedimenti strutturali non se ne prendono, solo palliativi che allungano l’agonia. Mentre la terra diventa arsa, i fiumi si prosciugano e gli incendi aumentano, così come i decessi. È un copione già scritto!