L’agricoltura italiana alla ricerca dell’identità perduta

Un settore storicamente portante dell’industria nostrana, si ritrova a fare i conti con un cambiamento strutturale e un sostanziale snaturamento della propria essenza.

Roma – In calo i lavoratori agricoli. L’agricoltura, che in economia rientra nel cosiddetto settore primario, vede ogni anno ridursi gli addetti. Eppure è nota a tutti la sua importanza, in quanto il suo scopo basilare è ricavarne prodotti per l’alimentazione, altrimenti si morirebbe di fame. Il primo spopolamento avvenne dal 1760 in poi, con le varie rivoluzioni industriali, durante le quali, ci fu una grande migrazione verso il settore industriale, in ascesa, soprattutto nel Regno Unito. In Italia questo spostamento si è realizzato negli anni ’60 del secolo scorso, passati alla storia come “boom economico”. Se si confrontano i dati delle diverse epoche storiche, si comprende meglio il fenomeno.

Nel 1800 l’Italia era ancora un Paese a vocazione agricola. Infatti, vi lavorava il 57,8% degli addetti. Mentre, ad esempio, nel Regno unito, poco oltre il 30%. L’ultimo dato diffuso dalla Banca Mondiale risale al 2019. Ebbene, gli addetti in agricoltura sono il 3,89% a tutto vantaggio dell’industria e del settore dei “servizi”. Tuttavia, il dato, secondo gli esperti, risulterebbe in lieve crescita rispetto al 2018. Nel nostro Paese, il numero degli occupati in agricoltura è di 1 milione di lavoratori, una riduzione del 50% rispetto al 1991, in cui erano ben 2 milioni.

Nel resto del pianeta il numero dei lavoratori in agricoltura è innegabilmente alto. Si pensi che in India sono occupati 210 milioni di persone, che ne fa il paese con più addetti nel settore. Al secondo posto si piazza la Cina con 198 milioni, in cui, però, rispetto al 1991 si è verificato una diminuzione di quasi il 50%, pari a 189 milioni di persone. La Banca Mondiale ci ha tenuto a diffondere la modalità con cui è calcolato il dato. Ovvero, numero di persone in età lavorativa occupate in qualsiasi attività che producano beni o somministrano servizi remunerati o a scopo di guadagno nel settore agricolo.

Intendendo con esso agricoltura in senso stretto, caccia, foresta e pesca. Per quanto riguarda il nostro Paese, il comparto agricolo ha retto abbastanza bene durante la pandemia. Secondo le ultime rilevazioni Istat, questo ha riguardato sia le superficie coltivate che la produzione. Infatti, per l’86,4% delle aziende agricole italiane la superficie agricola utilizzata è rimasta invariata dal 2020 al 2021, mentre per il 4,8% è, addirittura, cresciuta. Ma, come ha dichiarato Stefano Vaccari, direttore del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria): “Quella italiana è un’agricoltura ricca fatta da agricoltori poveri”.

Le cause principali vanno dall’estrema frammentazione della base produttiva agricola, alla presenza delle grandi multinazionali nelle varie fasi a valle della filiera. Questi fattori hanno contributo anche alla lenta contrazione del numero delle aziende agricole e alle difficoltà di vendita e finanziarie per quelle imprese agricole più legate ai canali commerciali tradizionali. E’ proprio in questa fase che dovrebbe essere messa in campo una politica agricola che rispetti le nostre tradizioni peculiari, associata all’innovazione tecnologica e robotica, al fine di far diventare l’agricoltura il settore primario nel vero senso della parola e non solo una definizione economica. Riuscirà il Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare ad essere… sovrano in patria? È quello che auspicano tutti i comuni cittadini.

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