Le baby pensioni pesano sempre più sulle casse dello Stato: ecco perché quest’eredità ingiusta danneggia le nuove generazioni.
L’Italia primeggia, quasi sempre, per aspetti che privilegiano alcune categorie sociali a svantaggio della collettività. Uno di questi primati è rappresentato dalle cosiddette “baby pensioni” erogate dallo Stato italiano a lavoratori del settore pubblico che hanno versato contributi previdenziali per pochi anni, ritirandosi dal lavoro anche prima di 40 anni d’età.
L’ignobile storia è frutto dell’art. 42 del DPR 1092 approvato dal governo Rumor, anno di grazia 1973, che così recitava “Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato”, che consentiva le baby pensioni nell’impiego pubblico: 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli; 20 anni per gli statali; 25 per i dipendenti degli Enti Locali. Una vera pacchia per chi, come categoria, veniva considerata nullafacente! Ora qualsiasi persona degna di un minimo di senso civile bolla questo privilegio, perché di questo si tratta, altro che diritto acquisito, come indegno e irriguardoso verso tanti lavoratori che sono costretti a sorbirsi fino a 43 anni di lavoro per andare in pensione e, quando ci arrivano, sono pronti per la bara!
Secondo stime attendibili il loro costo ammonta a 9 miliardi di euro, praticamente sprecati e mandati al macero. E’ chiaro che, data l’indole dell’italiano medio, le lamentele potrebbero essere frutto dell’invidia e non di giustizia, ma tant’è! Ancora oggi, le casse dello Stato piangono lacrime amare, mentre circa 400 mila cittadini ricevono l’assegno di quiescenza da oltre 40 anni e se la ridono con ghigno beffardo. La cifra è enorme, se poi si aggiunge il tasso dell’aspettativa di vita, diventa spropositata. L’Inps, (per i pochi che non lo sapessero è l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, ente pubblico non economico erogatore di servizi) ha stimato un valore pari a 130 miliardi di euro col cambio attuale.
Corbezzoli si potrebbe esclamare in maniera aulica, in forma plebea meglio lasciare spazio alla fantasia dei vari dialetti, altrimenti non basterebbe lo spazio per concludere questo “pezzo”! Secondo “Itinerari Previdenziali”, un Centro Studi e Ricerche che opera nell’ambito dei sistemi di protezione sociale, pubblici e privati, la spesa è di 9 miliardi di euro l’anno. I baby pensionati avendo lavorato poco e senza stancarsi, pare che vivono pure più a lungo di chi muore per il lavoro o per infortunio o per l’età avanzata in cui si smette, sono andati in quiescenza a 36,4 anni se maschi e a 39,5 se donne. Una cosa inaudita se pensiamo che, ad oggi, la pensione di vecchiaia si raggiunge a 67 anni.
Un divario troppo netto, marcato, prodotto di una politica miope che ha utilizzato la spesa pubblica per il consenso politico e sociale. E poi si dice che l’Italia è un Paese cattolico, con la famiglia che riveste un ruolo di primo piano. Si è visto in che modo, un privilegio che ha danneggiato e lo fa tuttora i propri figli, perché oltre all’età molto giovane per essere pensionabili, gli assegni erano quasi pari alla retribuzione percepita. Oltre al danno, la beffa. Lo squilibrio del sistema pensionistico è in netto squilibrio con baby pensionati da ben 38 anni con 15 o 20 anni di contributi. Altro che investimenti in borsa o in titoli di Stato. Con 20 anni del proprio lavoro, si poteva godere di 40 anni e oltre di pensione.
Oggi si va in pensione a 67: buona grazia se si arriva a 20 anni di godimento. Se si aggiungono i privilegi pensionistici della classe politica e dirigenziale italiana, nonché dei militari che ancora godono di favoritismi, non ci resta che piangere. Inoltre, risulta opaca la comprensione dei coefficienti di trasformazione, i valori che concorrono al calcolo della pensione. Per alcune categorie sono più alti e per altre più bassi: facile intuire a vantaggio di chi!