Agroalimentare nostrano: l’eccellenza bistrattata

La difficile situazione internazionale sottopone l’agroalimentare del Bel Paese ad un vero e proprio stress test. I giovani investono e il settore resiste. Si attende il famoso PNRR. Se mai arriverà.

Roma – L’agroalimentare italiano ha preso una brutta piega. La guerra in Ucraina ha inasprito la situazione per le aziende del tipico comparto italiano. Tuttavia il malessere già serpeggiava in precedenza. Il colpo di grazia c’è stato con l’aumento dei costi energetici, che rappresentano un aspetto rilevante per il settore sia per la logistica che per l’acquisto di materiali energivori. Si sono registrati, infatti, notevoli rincari di molti altri prodotti della filiera, come ad esempio i fertilizzanti che sono aumentati di almeno il 30%.

Uno studio condotto dalla direzione Studi e Ricerche Intesa Sanpaolo dall’eloquente titolo: Lo scenario per il settore agroalimentare italiano, offre un quadro esaustivo della situazione. I rincari energetici avranno una ricaduta sul già gramo bilancio delle famiglie italiane, provocando una riduzione dei consumi. Tuttavia, l’effetto della riapertura dopo la pandemia, porterà benefici all’agroalimentare italiano, grazie al riavvio delle attività sociali e turistiche. La struttura agroalimentare nazionale si basa su alcuni elementi altamente competitivi. Innanzitutto il vigore dei territori.

Infatti sei regioni italiane (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Sicilia, Puglia e Campania) rientrano in Europa tra le prime quindici nel settore agricolo a maggiore valore aggiunto. Inoltre, anche per la diversificazione e la biodiversità l’Italia mostra grande competitività, col 75% del vigneto nazionale coperto da oltre 80 vitigni.

Un numero di molto superiore a quello dei due più importanti competitor: Francia e Spagna, che ne hanno 15. Infine, un’elevata quota (16,3%) di superficie boschiva pari a quella della Spagna e superiore a quella delle altre nazioni. Lo studio ha confermato il valore dei territori e la qualità del made in Italy. Basti pensare alle 876 certificazioni DOP/IGP presenti nel nostro Paese, che occupa il primo posto in questa classifica.

Com’è noto, il marchio DOP sta ad indicare la denominazione di origine protetta, che è un marchio di tutela giuridica attribuita agli alimenti le cui peculiarità dipendono dal territorio in cui sono stati prodotti. Mentre l’IGP, indicazione geografica tipica è un marchio d’origine attribuito ai prodotti agricoli e alimentari con qualità che dipende dall’origine geografica.

In base a questi fattori, l’Italia ha raggiunto un’ottima posizione sui mercati internazionali, sia per le esportazioni che nella qualità. Ora, però, per sostenere la crescita del settore, lo studio ha suggerito alcune priorità.

Innanzitutto bisogna incentivare i rapporti di filiera, gli investimenti nel cosiddetto capitale umano e i rinnovamenti dell’Agricoltura 4.0. A queste priorità va aggiunta quella di un più rapido passaggio generazionale. Secondo le ultime stime, nell’ultimo quinquennio. il numero di aziende agricole a conduzione giovanile under 35 si è incrementato in controtendenza rispetto al numero totale delle aziende.

In questo contesto, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il famoso PNRR, avrà un ruolo fondamentale. I fondi messi a disposizione per il comparto dell’agroalimentari ammontano a 6,8 miliardi di euro, che dovrebbero essere utilizzati per i seguenti scopi: investimenti in innovazione e meccanizzazione nella logistica, nell’agri-solare, nello sviluppo del biogas e biometano e nella resilienza dell’agro-sistema irriguo.

Però in Italia manca sempre un centesimo per fare una lira, come diceva un vecchio motto popolare, a testimoniare che manca sempre qualcosa per raggiungere l’obiettivo. E’ un po’ come avere una Ferrari, ma mancano i piloti.

Nell’agroalimentare ci sono gli strumenti, ma latitano quelli capaci di farli funzionare. Infatti, risulta che: solo il 30% delle imprese del settore ha familiarità con le linee programmatiche; addirittura solo il 7% è a conoscenza degli effetti operativi per lo sviluppo strategico del proprio business; più della metà ne è informata in maniera insufficiente o affatto.

Della serie: Cristo manda il pane a chi non ha i denti, tanto per restare nella tradizione popolare. Nel senso che, sovente, le risorse vanno a coloro che non hanno le competenze necessarie per fruirne. Che desolazione!

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