Il giovane sottufficiale era divenuto un temibile avversario della ‘ndrangheta locale. Il comandante di stazione di San Luca aveva identificato mandanti ed esecutori di diversi sequestri di persona. Un affronto che le ‘ndrine non potevano sopportare tanto da condannarlo a morte. I suoi assassini sono rimasti impuniti.
San Luca – Era un uomo coraggioso e leale. Fermo assertore della legalità e fedele alle istituzioni dello Stato. Il brigadiere dei carabinieri Carmine Tripodi, 25 anni, originario di Castel Ruggiero, frazione di Torre Orsaia, in provincia di Salerno, ad appena 18 anni era entrato nell’Arma. A 20 aveva superato gli esami previsti dalla scuola Allievi Sottufficiali per poi svolgere servizio a Banco, nel reggino, dove aveva diretto il nucleo Operativo e Radiomobile.
Due anni dopo era stato nominato comandante della stazione di San Luca, provincia di Reggio Calabria, dopo aver prestato servizio a Bovalino, sempre nella Locride, zona ad altissimo tasso mafioso ieri come oggi. Negli anni ’80 l’Aspromonte era terra di sequestri di persona, riscatti e omicidi crudeli. E Tripodi non era certo tipo da rimanere con le mani in mano.
Le attività illegali della ‘ndrangheta come i sequestri rappresentavano il maggior reddito della criminalità locale che, negli anni a venire, avrebbe impiegato per pagare grossi quantitativi di droga da rivendere nelle maggiori piazze italiane. Ben presto Tripodi verrà considerato dalle cosche un ostacolo, un uomo che dava fastidio con i suoi arresti e perquisizioni.
Il brigadiere si dedicherà, infatti, di diversi sequestri di persona indagando e riuscendo a identificare mandanti ed esecutori. Si gettò a capofitto nella vicenda del rapimento di Carlo De Feo, l’ingegnere napoletano tenuto prigioniero per più di un anno in un nascondiglio di montagna. Le sue indagini portarono all’arresto di diversi componenti e sodali di famiglie mafiose coinvolte nei sequestri tanto che la ‘ndrangheta decise di condannarlo a morte.
La vile esecuzione, come tutte quelle operate dai killer mafiosi, si consumava il 6 febbraio del 1985 sulla provinciale che da San Luca porta al mare. L’auto di Tripodi venne bloccata da un commando di assassini che, sbarrandogli la strada, aveva iniziato a sparare contro il militare crivellandolo di colpi.
Il coraggioso brigadiere, ferito a morte, riusciva ad estrarre dal fodero la sua pistola d’ordinanza e rispondeva al fuoco ferendo uno dei sicari, prima di accasciarsi sul sedile lato guida in un lago di sangue. Le successive indagini portarono in gabbia Domenico Strangio, Rocco Marrapodi e Salvatore Romeo, affiliati ai clan criminali locali, ritenuti i presunti esecutori materiali dell’omicidio.
I tre vennero poi assolti e la morte del coraggioso carabiniere di San Luca rimane ancora oggi senza colpevoli. Tripodi si sarebbe sposato di lì a qualche mese dunque a piangerlo al suo funerale, oltre ai genitori e altri congiunti, c’era anche la fidanzata Luciana, distrutta dal dolore.
Alla memoria di Carmine Tripodi, medaglia d’Oro al valor militare, sono intitolate la caserma sede del comando dei carabinieri di San Luca e la caserma dei carabinieri di Torre Orsaia. Sulla sua vicenda Cosimo Sframeli e Francesca Parisi hanno scritto il libro “Un Carabiniere nella lotta alla ‘ndrangheta” pubblicato nel 2011 per i tipi di Falzea Editore.
Sempre a Tripodi è stata intitolata la motovedetta Carabinieri 816 ormeggiata a Gaeta e la piazza antistante la caserma dei carabinieri di San Luca. Dal 2020 anche la piazza nel centro di Castel Ruggero porta il suo nome, a ricordo imperituro di un eroe – Uso agir tacendo, e tacendo morir:
”…Quando prestai servizio in Calabria nel Luglio 1985 come ufficiale di Complemento nel distaccamento del 11 battaglione carabinieri – racconta il magistrato catanese Sebastiano Ardita – il ricordo di Carmine Tripodi era ancora vivo e destava commozione fra carabinieri e cittadini. Il coraggio ed il sacrificio di questo eroe dell’Arma sono ancora un esempio per tutti noi che operiamo nelle istituzioni…”.