Le sentenze, lo diceva anche Vendola, non si commentano, si accettano. Evidentemente le cose cambiano e l’ex capo della Regione Puglia si scaglia contro quella che ritiene una giustizia profondamente malata. Se l’ex presidente ha operato davvero per il bene di Taranto i fatti gli daranno ragione prima o poi. Non rimane che attendere, come per qualsiasi altro mortale.
Taranto – Le polemiche continuano dopo le sentenze di condanna emesse dalla Corte di Assise di Taranto al termine del processo ”Ambiente svenduto” che ha coinvolto 47 imputati, di cui 44 persone e tre società, e condannato in primo grado l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola a 3 anni e 6 mesi di reclusione e Fabio e Nicola Riva rispettivamente a 22 e 20 anni di detenzione.
L’ex governatore pugliese, da sempre ambientalista, è astato ritenuto responsabile di concussione aggravata relativamente ai presunti tentativi di ammorbidire i controlli sui livelli di inquinamento ambientale provocato dall’ex Ilva.
Vendola, a tal proposito, avrebbe fatto pressioni sull’ex direttore generale dell’Agenzia per l’ambiente (Arpa) della Puglia Giorgio Assennato condannato, a sua volta, a 2 anni di carcere. Ma chi è davvero Nicola Maria Vendola detto Nichi? Uno dei tanti che non ha voluto salvare i tarantini dall’avvelenamento?
“…Io sono Nichi Vendola, uno che ha combattuto faccia a faccia contro i clan mafiosi e che ha denunciato le collusioni dello Stato e della magistratura – sostiene l’ex presidente di Sinistra Ecologia Libertà – uno che le vacanze da uomo di potere le ha fatte a proprie spese in Chapas difendendo gli indigeni o in Colombia al processo di pace o a Sarajevo sotto le bombe. Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. E’ come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova…
…Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata…”.
Una condanna che pesa come un macigno, come la parabola dell’acciaieria Ilva di Taranto, il maggiore stabilimento per la lavorazione dell’acciaio in Europa. Il famoso caso Ilva risale al 2012 quando la Procura di Taranto decideva la chiusura del polo siderurgico e l’arresto dei suoi dirigenti a causa delle gravi violazioni ambientali che provocarono gravi malattie e centinaia di decessi.
Da quel momento iniziava un lungo e tortuoso iter giudiziario in cui lo Stato in primis tentava il salvataggio dell’azienda più importante per l’economia del nostro Paese. Insomma la questione Ilva diventava una questione di Stato.
In realtà le prime indagini e le successive azioni legali iniziarono molto tempo prima, negli anni 80. Un dramma sanitario e ambientale quello della città ionica già noto ai medici e agli abitanti che, a partire dai primi anni 90, constatavano un aumento esponenziale di malattie quali mesotelioma, leucemie, tumori e patologie legate alla tiroide.
Il 26 luglio del 2012 il Gip di Taranto Patrizia Todisco firmava il provvedimento di sequestro degli impianti dello stabilimento di Taranto e le misure cautelari a carico dei vertici aziendali nell’inchiesta per disastro ambientale.
Emilio Riva, presidente dell’Ilva fino al maggio 2010, il figlio e successore Nicola Riva, l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso, il dirigente capo dell’area reparto cokerie Ivan Di Maggio e il responsabile dell’area agglomerato Angelo Cavallo, venivano arrestati.
Le accuse mozzano il fiato come i veleni emanati nell’aria fino ad allora: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e versamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico.
Ma lo Stato non può perdere quel fiore all’occhiello dell’economia nazionale e, di conseguenza, pensa bene di varare delle leggi ad hoc per aggirare i livelli di inquinamento consentiti, posticipando i termini entro i quali l’azienda avrebbe dovuto adeguarsi alle leggi dal punto di vista degli standard ambientali.
Con il Decreto Ministeriale 21 gennaio 2015 veniva aperta una procedura di amministrazione straordinaria e nominato il collegio commissariale di Ilva S.p.a. nelle persone di Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi.
Commissari straordinari con il compito di risanare l’azienda per poi rivenderla. Nel gennaio 2017 la multinazionale indiana Arcelor Mittal, vincitrice della gara pubblica, assumeva il controllo parziale dell’acciaieria.
Una gara che però destava qualche dubbio, tanto che nel luglio 2018 il governo Conte chiedeva all’Anac di indagare sulla sua regolarità. L’anno successivo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo apriva un ulteriore procedimento nei confronti del Bel Paese per continue emissioni incontrollate di sostanze non certo pure e profumate.
Nel gennaio 2021, a seguito di un nuovo accordo tra i commissari Ilva e la multinazionale indian,a con sede in Lussemburgo, per la governance veniva disposto l’ingresso di Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa nel capitale sociale di AM InvestCo Italy S.p.a.
In pratica una controllata di Arcerol Mittal, il colosso siderurgico fondato da Lakshmi Mittal. Il 31 maggio scorso la sentenza di primo grado. Le difese dei condannati si preparano per l’appello.