Cybersicurezza, spunta il carcere per i giornalisti: fino a 8 anni per notizie illecite

Emendamenti presentati da Enrico Costa e Tommaso Calderone nati dallo scandalo dossieraggi che ha visto coinvolto Pasquale Striano.

Roma – Il carcere per i giornalisti esce dalla porta e rientra dalla finestra. Solo due settimane fa erano scattate le proteste dopo alcuni emendamenti al ddl sulla diffamazione, a prima firma del deputato Gianni Berrino, che prevedevano che i giornalisti condannati per diffamazione in alcuni casi potessero andare in carcere, anche per periodi fino a quattro anni e mezzo. Emendamenti poi ritirati. Ora sono stati presentati due emendamenti, uno a firma Enrico Costa (Azione), sottoscritto anche da Maria Elena Boschi (Iv), e uno a firma Tommaso Calderone (Forza Italia), che prendono le mosse dal presunto scandalo dossieraggi. Si punta a spezzare il passaggio di informazioni tra fonti e giornalisti, per punire chiunque pubblichi notizie raccolte illecitamente.

Pene fino a otto anni per le notizie frutto di un reato, inserite nel ddl sulla cybersicurezza. Proposte che prendono le mosse dalle vicende che coinvolgono Pasquale Striano, il finanziere fino a poco tempo fa in servizio alla Dna finito al centro dell’inchiesta di Perugia per i presunti accessi abusivi al registro delle Segnalazioni di operazioni sospette (Sos). Segnalazioni poi inoltrate a diversi giornalisti. Una vicenda, quella giudiziaria, nata a seguito dell’esposto del ministro della Difesa Guido Crosetto, che, dopo la pubblicazione su Domani di notizie (vere) relativamente ai suoi rapporti con Leonardo, presentò un esposto per chiedere alla Procura di Roma di indagare sull’accesso a questi dati riservati. Di fatto voleva andare a fondo sulle fonti dei giornalisti.

Guido Crosetto

La vicenda, per diverse settimane sulle prime pagine di tutti i giornali, ha conferito carattere di urgenza al ddl Cybersicurezza, che era stato approvato dal Consiglio dei ministri a gennaio, in tempi non sospetti. Il provvedimento è ora all’esame delle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia alla Camera. Ora, però, ci riprovano Costa e Calderone. Il primo introducendo l’articolo 615-sexies (“Diffusione di informazioni di provenienza illecita”), in base al quale, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, e fuori dai casi di concorso nel reato, chiunque, conoscendone la provenienza illecita, diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, in tutto o in parte le informazioni acquisite mediante le condotte indicate nella presente sezione è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.

Calderone – appoggiato da altri due deputati di FI, Annarita Patriarca e Paolo Emilio Russo – riconduce la fattispecie ai reati più gravi di ricettazione, riciclaggio e autoriciclaggio di dati o programmi informatici, con l’introduzione dell’articolo 648-ter.2, che estende le disposizioni degli articoli 648, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1 ai “dati o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico sottratti illecitamente e alla loro utilizzazione, riproduzione, diffusione o divulgazione con qualsiasi mezzo”. Significa pene fino a 6-8 anni.

Dunque, se il giornalista è consapevole della provenienza illecita dell’informazione rischierebbe di finire in carcere. Ciò nonostante le sentenze Cedu vadano in direzione opposta, tutelando le fonti giornalistiche: nella sentenza del 6 ottobre 2020 (causa Jecker c. Svizzera, ricorso n. 35449/14), la Corte europea dei diritti umani ha infatti operato un’ulteriore stretta a protezione della confidenzialità delle fonti.

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