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Lavoro e felicità non vanno di pari passo

Una ricerca sul rapporto tra lavoro e felicità ha dato risultati che non riflettono fedelmente l’attuale situazione italiana. Nel nostro Paese infatti si aggravano sempre più problemi come disoccupazione, precariato, lavoro nero e salari da fame.

Roma – Il lavoro, sin dai primordi, ha accompagnato l’evoluzione umana, fino a diventare uno dei cardini principali di ogni sistema sociale. Generalmente è definito come “Attività materiale o intellettuale per mezzo della quale si producono beni o servizi, regolamentata legislativamente ed esplicata in cambio di una retribuzione”. Si distingue in “manuale, intellettuale, dipendente e autonomo”. A questi, nel corso dei secoli, si sono aggiunti altri attributi: malpagato, in nero, sfruttato. Comunque sia, secondo alcune stime, in media, nella vita si trascorrono più di 90mila ore al lavoro!

Questa cifra ragguardevole ha destato l’interesse della Glickon, una startup con sede a Milano e specializzata nelle risorse umane, che ha eseguito una ricerca sul rapporto tra lavoro e felicità. Ovvero: “si riesce in questo vortice infinito di ore dedicate al lavoro per guadagnarsi l’amaro pane, a ritagliarsi sprazzi di felicità”? È emerso che per l’80% degli intervistati, la felicità è molto rilevante e per il 97% questa condizione favorisce la produttività. Il 66% è sostanzialmente soddisfatto del lavoro che fa, pur non svolgendo le mansioni che sognava e pur non svolgendo un lavoro adeguato agli studi effettuati. È molto probabile che la situazione economica in generale e del mercato del lavoro in particolare abbia contribuito non poco a dati del genere.

È a tutti noto il fenomeno delle “grandi dimissioni”, in cui si è assistito all’abbandono del posto di lavoro per dedicare più tempo a sé stessi. Un forte cambiamento di valori e priorità, che dimostra l’inversione di tendenza. Ma qual è la scala di valori sul lavoro? Al primo posto ci sono le relazioni coi colleghi e il contesto lavorativo, seguite dalla propria specifica attività. Poi da flessibilità, incentivi e stipendio. Un aspetto che è venuto fuori è rappresentato dalla richiesta per la valorizzazione dei talenti, che le aziende devono essere in grado di trattenere e pagare bene, oltre che migliorare le condizioni che incidono su benessere del lavoratore. Ma come percepiscono la felicità le varie generazioni?

La Generazione Z, compresa tra gli anni 1997 e 2012, ritiene la qualità delle relazioni e la sostenibilità del proprio tempo, più decisiva rispetto a quella X, comprendente i nati tra il 1965 ed il 1980, e ai Boomer, di cui fanno parte i nati tra il 1946 ed il 1964. Lo stesso vale per altri valori, quali trasparenza ed etica. Sembrerebbe che la tendenza sia di attuare il famoso motto di Confucio: “Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neanche per un giorno in tutta la tua vita”. Ma le cose stanno veramente così? È chiaro che se si chiede ad una persona se avere un rapporto positivo con i propri colleghi e con l’ambiente in generale possa favorire la felicità sul lavoro, non si può che rispondere in modo affermativo. Come non c’era bisogno di una ricerca per capire che il benessere psicofisico del lavoratore fa aumentare la produttività.

La situazione economica non appare come quella che scaturisce dalla ricerca. Basti fare un giro nelle stazioni affollate dei treni e delle corriere all’alba di ogni santo giorno che Dio manda in terra, da una moltitudine di individui, uomini e donne, che come in una processione laica si avviano verso il lavoro, che spesso non serve nemmeno a sbarcare il lunario. Andassero a chiedere a loro quale possa essere il rapporto tra lavoro e felicità. Oppure ai braccianti agricoli sottoposti a ogni sorta di sfruttamento e vessazione. O, ancora, ai rider che in bici scorrazzano per le nostre città sotto sole, pioggia o grandine a consegnare pasti con una paga oraria irrisoria. Ecco, chissà che classifica verrebbe fuori.                          

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