Una storia da raccontare nel Giorno della memoria

Un uomo probabilmente noto agli appassionati di calcio che hanno i capelli brizzolati, o nemmeno quelli. Ma il suo vissuto travalica lo sport. Parliamo di Árpád Weisz.

Milano – Il suo nome forse non evoca tra i tifosi odierni rammenti calcistici emotivi degni di nota. Troppo indietro nel tempo per essere attuale. Troppo diverso quel calcio, depurato dal nugolo di star ipertatuate che onorano i loro ingaggi milionari saltellando dai campi ai social. Weisz rappresentava un altro calcio, fatto di sacrifici, di vita reale, di conoscenza.

Árpád Weisz nasce a Solt, paesino di 10mila anime, placidamente adagiato tra il lago Balaton e la capitale Budapest. Il suo nome di battesimo è semisacro in terra magiara, Árpád infatti, capo degli Ungari e fondatore della casa degli Arpadi, è forse il primo creatore della nazione ungherese, per come la intendiamo oggi.

Tira i primi calci nel Törekvés. Lo nota l’Alessandria, che lo porta in Italia. Árpád era un mancino velocissimo. Dal Piemonte si trasferisce all’Ambrosiana Inter nel 1925. Nemmeno 30enne, la carriera del gracile Csili, questo il suo soprannome ungherese (derivato da csípős =piccante) che testimoniava il suo carattere vivace, venne conclusa da un tremendo infortunio alla gamba sinistra. Ma non si perde d’animo e decide di allenare, fa gavetta in Uruguay, Argentina poi torna ad Alessandria. Nel 1926 diventa allenatore dell’Inter e causa leggi di disumana genesi, tragico preludio della sua orribile fine, è costretto a cambiare il cognome in Veisz.

La squadra del Törekvés nel 1913.

Mentre gli altri allenatori vestono in giacca e cravatta, Weisz è il primo tecnico in Italia a presentarsi agli allenamenti in pantaloncini e maglietta. Coautore di un manuale, Il giuoco del calcio, che fu bestseller dell’epoca. Mister Weisz poi ha il non trascurabile merito di lanciare in prima squadra a soli 14 anni un ragazzo, Giuseppe Meazza, “un mucchietto d’ossa dai piedi prodigiosi” lo chiamava. Vince uno scudetto nella stagione 1929-1930. A soli 34 anni è l’allenatore più giovane della storia della Serie A laurearsi Campione d’Italia. Il record oggi resiste ancora.

Nella stagione seguente Weisz va a Bari. Dal Tavoliere fa però presto ritorno a Milano, tornando di nuovo all’Ambrosiana. Weisz lascia definitivamente i nerazzurri nel 1934. Passa al Novara e nel 1935 approda a Bologna al posto del connazionale Lajos Kovács. Lì Weisz trova una squadra in crisi, ma riesce a produrre un miracolo e conquistare lo scudetto spezzando così il dominio della Juventus degli Agnelli. La “squadra che tremare il mondo fa”, così passa alla storia quel Bologna. Altro Scudetto l’anno dopo e a Parigi, il 6 giugno del 1937, vince anche il Trofeo dell’Esposizione (una specie di Coppa Campioni ante litteram), impartendo una severa lezione ai maestri inglesi del Chelsea per 4-1 con la stampa inglese che lo celebra come maestro dell’arte tattica, “un inno al calcio”.

Ma la storia decide di scrivere il suo destino e le leggi razziali promulgate dal regime mussoliniano lo costringono a emigrare. Il 16 ottobre 1938 Weisz si siede per l’ultima volta sulla panchina del Bologna battendo la Lazio 2-0, tra i fischi belluini del pubblico, che con mentalità ovina segue i dettami del regime. Due mesi dopo si trasferisce a Parigi insieme alla moglie Elena, anche lei ungherese di origini ebraiche e i figli Roberto e Clara. Ma la Francia è catapultata nella follia antisemita, persino il capitano della Nazionale francese del 1930, Alexandre Villaplane, si fa coinvolgere diventando addirittura informatore per la Gestapo.

Poi prova in Inghilterra, ma c’è posto solo per gli inglesi e non c’è possibilità di ottenere il Visto. L’unica soluzione possibile sono i Paesi Bassi, il Dordrecht che lo designa come allenatore della squadra cittadina, una delle società più antiche del Paese. La stagione successiva il Dordrecht conquista un incredibile 5° posto (miglior risultato nella storia della società olandese, ndr), ma la violenza nazista arriva anche lì. Nel 1940 i tedeschi invadono i Paesi Bassi, Weisz guida il Dordrecht per un’altra stagione, nonostante in Olanda viene promulgato un decreto ad personam che lo costringe a stare ad almeno 100 metri dal terreno di gioco. Weisz allena spesso di nascosto tramite indicazioni recapitate con “pizzini” dai suoi collaboratori, e il Dordrecht arriva ancora 5°, ma il 29 settembre 1941 le leggi razziali hanno il sopravvento e il tecnico ungherese è costretto nuovamente ad abbandonare la panchina.

La targa in onore di Weisz allo stadio Dall’Ara di Bologna.

La famiglia Weisz è aiutata dalla comunità di Dordrecht, per tirare avanti in quel periodo buio, ma non hanno abbastanza soldi per abbandonare il Paese. Il 2 agosto 1942 l’intera famiglia Weisz è prelevata dalla Gestapo e avviata ai campi di sterminio. Dopo una breve permanenza a Westerbork, il 2 ottobre vengono messi sui vagoni: direzione Auschwitz-Birkenau. Il 5 ottobre sua moglie Elena-Ilona Rechnitzer, di 34 anni, e i piccoli Roberto e Clara, rispettivamente di 12 e 8 anni, trovano la morte nelle camere a gas. Weisz riesce, con quella forza sovrumana e misteriosa che questo genere di perdite produce, a resistere ai lavori forzati fino al 31 gennaio 1944, giorno della sua morte e il suo corpo viene gettato in una fossa comune.

È l’ultimo, atroce capitolo dell’esistenza di uno degli uomini più importanti della storia del calcio.

In memoria di Ilona Rechnitzer, Roberto, Clara e Árpád Weisz e di tutte le vittime dell’odio.

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