Pelé, per aspera ad astra. Addio ad una leggenda

Dopo una lunga ed estenuante lotta contro un tumore al colon, si è dovuto arrendere O Rey, da molti considerato il più grande calciatore di tutti i tempi.

Chi non ha avuto la fortuna di vederlo giocare si ritrova con l’assillo del dubbio: “Meglio lui o Maradona?”. Chi invece quella fortuna l’ha avuta, dubbi non ne ha. È lui il miglior calciatore di sempre. Stiamo parlando di Edson Arantes do Nascimento, noto ai più come Pelé.

E pensare che quel nomignolo, Pelé appunto, lo detestava. Affibbiatogli dai compagni in età scolare a causa di un suo difetto di pronuncia, è diventato iconico.

Nato nel 1940 nel Brasile sudorientale, l’infanzia di Pelé ricalca quella di molti giovani sportivi sudamericani. Intrisa di povertà e sofferenza. Il papà, anch’egli calciatore, smette per un gravissimo infortunio, la mamma Celeste è il motore della famiglia.

Viene chiamato Edson in onore dell’inventore americano Thomas Alva Edison. Come sovente accade però, l’anagrafe brasiliana non fa della precisione la sua dote migliore, quindi il nome viene erroneamente trascritto senza la “I”.

Cresce a Bauru, nel distretto di San Paolo, e ha sempre il pallone tra i piedi. All’età di 15 anni il suo allenatore/mentore calcistico lo porta al Santos, club di punta della nazione verde-oro, presentandolo così: “Lui sarà il miglior giocatore del mondo”. Non male. Il Santos gli dà fiducia e presto scopre di avere tra le mani un gioiello dall’inestimabile valore. Tanto che diverse società europee tentano di accaparrarselo. Quella che ci va più vicina è l’Inter di Angelo Moratti, c’è addirittura un precontratto, ma all’ultimo momento il presidente del Santos viene costretto a stracciarlo per paura di rivolte cittadine.

Ma è con la nazionale brasiliana che il nome di Pelé entra nella leggenda del calcio e non solo. Segnatamente nei Mondiali del 1958, in Svezia. Lì nasce la mistica del numero 10. Un numero come tanti altri fino a quel momento. Con una genesi curiosa: la federazione brasiliana si dimentica di comunicare i numeri dei giocatori iscritti al Mondiale. Quindi tocca a un ignaro delegato che, facendo affidamento sulla sua affatto ferrea memoria, butta giù i numeri dei giocatori a caso. Gilmar, il portiere, si ritrova il 3, e il giovane 17enne Pelè il 10.

Le lacrime di Pelé dopo la vittoria del Mondiale in Svezia, nel 1958.

Il “peso” di Pelé però travalica lo sport. Basti pensare che, nel corso dei succitati Mondiali scandinavi, la prima formazione brasiliana che scende in campo contro l’Austria vede 10 giocatori bianchi su 11. Unico nero, Didì. Il calcio in Brasile negli anni ’50 è appannaggio delle classi più benestanti. Ma l’inizio stentato costringe l’allenatore Feola a buttare nella mischia il giovane Pelé contro l’Unione Sovietica. Il resto è storia. È la stella di quel Mondiale e, da allora, i neri nel calcio brasiliano aumentarono in modo cospicuo.

In Brasile diventa un semidio, il Santos viene richiesto di continuo per tournée in tutto il mondo. Pelé assomma una fortuna, che poi dilapida a causa di sprovveduti consiglieri. Si ritrova a dover ricominciare da zero, facendo leva sul suo abnorme talento. E con la nazionale brasiliana si cristallizza il suo mito. Nei Mondiali del 1962 il Brasile trionfa ma lui, causa infortunio, gioca poco o niente. Viene però coniato per lui il soprannome O Rey: il re.

Il trattamento riservato a Pelé dai portoghesi nel Mondiale del 1966 lo costringe ad arrendersi.

In quelli del 1966, disputati in Inghilterra, Pelé segna contro la Bulgaria, diventando il primo giocatore a segnare in tre diverse edizioni dei Mondiali. Ma contro il Portogallo viene fisicamente massacrato dagli avversari, finisce zoppicando e Il Brasile è eliminato. Deluso e ferito, il fuoriclasse decide che quello sarà il suo ultimo Mondiale.

Nel frattempo in Brasile è salita al potere una dittatura militare e i generali individuano nel calcio, che era più di una religione, la “cura” per il popolo. Una moderna versione del panem et circenses di romana memoria. Nel 1969 il generale Emilio Medici silura il tecnico Saldanha, reo di aver messo da parte Pelé, e assume Mario Zagallo, che lo richiama in squadra. Il Mondiale del Messico nel 1970 è una cavalcata trionfale e in finale il Brasile fa a pezzi, ahinoi, l’Italia. Pelé è l’autentico trascinatore che porta in patria la Coppa Rimet.

Lo stacco con cui Pelé sovrasta Burgnich per l’1-0 della finale di Messico 1970, finita 4-1 per il Brasile.

Ritiratosi dalla Nazionale, O Rey finisce un’altra volta in bancarotta e, per ripagare i debiti, è costretto a firmare con una squadra americana, i Cosmos. Gioca negli Usa per 2 anni, dando vita al primo boom del soccer americano, poi nel 1977 appende le scarpe al chiodo.

Leggenda in campo, con 1.281 gol segnati ufficialmente per la FIFA (tale numero è oggetto di contestazioni, ndr) lo è stato un po’ meno nella vita. Sposato 3 volte con un imprecisato numero di figli, (ufficialmente 7) lui stesso confessa: “Non so quanti ne ho”. Diciamo che O Rey, in qualità di genitore e marito, non pervenuto.

Intenso scambio di sguardi tra Pelé e la Coppa Rimet.

Terminata la carriera agonistica, Pelé, a differenza di molti suoi colleghi, preferisce non fare l’allenatore. Numerosi i riconoscimenti e gli incarichi ricevuti. È stato il primo personaggio sportivo intorno a cui è stato dedicato un videogioco, gli è stato intitolato lo stadio di Maceiò, l’Estàdio Rei Pelé, costruito nel 1970. Ambasciatore delle Nazioni Unite per l’ecologia e l’ambiente, dell’Unesco e Ambasciatore per il calcio della FIFA. In Brasile diventa anche ministro straordinario per lo sport.

Un uomo che, partito dall’indigenza, è divenuto leggenda nello sport più popolare del mondo. Pelé non ha mai dimenticato le sue origini. Così descriveva Três Corações (Tre cuori), suo paese natale: «Dove sono nato, dove sono cresciuto, dove ho giocato a calcio. Questo ha dato anche a me tre cuori».

Adeus campeão.

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