Videogiochi, passione pericolosa!

Tra i ragazzi e non solo quello dei videogames è un passatempo divertente e diffusissimo. Ma i rischi derivanti da un eccessivo utilizzo sono palesi e possono condurre a disturbi molto seri.

Roma – Sono trascorsi 50 anni da quando sul mercato comparve, a miracolo mostrare, un videogioco, Pong dell’azienda statunitense Atari. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e questi infernali aggeggi sono diventati sempre più sofisticati! Si trattava di un gioco molto semplice: un quadrato bianco, avente funzioni di pallina, rimbalzava tra due barre, che potevano essere mosse solo in verticale. Insomma, una sorta di ping pong.

Negli ultimi tempi i videogiochi sono diventati molto comuni. Tanto che secondo IIDEA, l’Associazione di categoria dell’industria videoludica in Italia, ci sono sul suolo patrio circa 17 milioni di persone che utilizzano questi giochi come passatempi. Il fenomeno si è talmente diffuso che nel 2020, complice forse la pandemia, il settore ha avuto una vistosa impennata da superare in termini di entrate sia il cinema sia gli sport. Oggi i videogiochi hanno una grafica molto avanzata e raffinata, con storie altrettanto complesse. L’antenato Pong al confronto sembra un gioco da bambini, eppure il suo avvento fu il primo a diffondersi tra le masse (come si diceva una volta).

Il mitico Pong, antesignano di tutti i videogiochi.

La commercializzazione divenne capillare fino a diventare un fenomeno sociale, che permetteva, per la prima volta, a molti, di giocare l’uno contro l’altro con un aggeggio elettronico. Nei fatti e nell’immaginario collettivo, Pong è diventato l’antesignano dell’intera industria dei videogiochi. Ma non solo, è diventato un “cult” nella cultura pop e nell’arte contemporanea. Ad esempio, una pubblicità di American Express nel 2006 in cui il tennista Andy Roddick giocava a tennis contro la barra bianca di Pong. Oppure, nel 1999, l’installazione interattiva Atari Light, con cui gli spettatori potevano giocare a Pong su un soffitto, stesi a terra o in piedi e che fu esposta alla Biennale di Venezia. L’opera fu realizzata dall’artista francese Pierre Huyghe, noto per l’uso di diversi mezzi espressivi, da film e video fino a interventi nello spazio pubblico.

Ma quando si ha che fare con la tecnologia, il suo uso massiccio sfocia in una sorta di totalitarismo. E la sua pervasività ha provocato una vera e propria dipendenza. Finanche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’ha inserita tra le dipendenze, definendola “Internet Gaming Disorder” (IGD) online e offline. I tassi di dipendenza sono determinati da fattori familiari e psicosociali e dalla presenza di altri sintomi in comorbilità, ovvero la presenza nello stesso soggetto di più malattie. Gli effetti su bambini, preadolescenti e adolescenti possono essere fisici, cognitivi, relazionali, economici ed emotivi. Si va dai dolori alle articolazioni, stanchezza, emicrania, secchezza oculare, incuria della propria igiene personale, alterazioni dei ritmi sonno-veglia a causa dell’utilizzo dei videogiochi anche di notte.

Ma è l’aspetto psicologico che preoccupa. Il giocatore finisce per rimpiazzare le relazioni del mondo offline con quelle virtuali. Gli esperti definiscono questa situazione come un morboso attaccamento alla propria identità online (avatar), percepita come estensione del sé, come amico intimo. Per i minori l’effetto è ancor più devastante, in quanto viene meno l’interazione coi propri parie l’isolamento sociale ne è un effetto logico. Infine i minori affetti da Internet Gaming Disorder (IGD) sono più irritabili, ansiosi e depressi. È la dimostrazione tangibile del fallimento totale della famiglia, della scuola, delle agenzie educative e delle istituzioni. E della loro totale assenza, vista la diffusione del fenomeno. Brutti tempi!

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