L’equazione sembrerebbe risolta: denaro uguale felicità. Ma a guardare più a fondo ci si accorge che quello a cui gli esseri umani aspirano non è l’abbondanza di denaro ma la disposizione del tempo che il denaro permette di acquisire, eliminando le incombenze quotidiane.
Milano è un polo di attrazione per molte categorie di persone e certamente per i benestanti. Senza scomodare troppo le statistiche, basta guardare i prezzi medi delle abitazioni in certe zone della città, per comprendere quale sia lo standard economico della metropoli. L’Inps, inoltre, nel suo rapporto annuale, ha confermato che in Italia un super-ricco su due vive a Milano. Ha residenza nel capoluogo lombardo il 54% di chi in Italia guadagna dai 220.000 ai 533.000 euro l’anno. La seconda città d’Italia per ricchezza personale, ma a distanza considerevole da Milano, è Roma. La concentrazione geografica del reddito alto in Lombardia e le sue implicazioni sull’accumulo di competenze e imprese produttive evidenzia una distribuzione disomogenea di expertise e ricchezza sul territorio nazionale.
La domanda un po’ provocatoria a cui vogliamo cercare di rispondere è questa: poter contare su un reddito alto o possedere denaro e beni materiali, porta davvero alla felicità? E se questa premessa fosse vera, potremmo dedurne quindi che i Milanesi sono tra gli italiani più felici? Bombardati da immagini di celebrità che si godono la vita nel lusso e che, soprattutto, la mostrano senza ritegno sui vari social, la risposta sembra ovvia. Ricconi che non ostentano un sorriso bianchissimo a 34 denti perfetti non se ne conoscono. L’equazione dunque sembrerebbe risolta: denaro uguale felicità. Ma a guardare più a fondo ci si accorge che quello a cui gli esseri umani aspirano non è l’abbondanza di denaro ma la disposizione del tempo che il denaro permette di acquisire, eliminando le incombenze quotidiane. La ricchezza è semplicemente un mezzo per ottenere di poter fare quello che ci piace, che in ultima analisi è ciò che ci rende felici.
Il denaro è la merce di scambio con cui si compra il tempo, delegando ad altri le necessità spiacevoli e noiose, per potersi poi concentrare su ciò che ci dà piacere, seguendo le nostre inclinazioni. L’etica del lavoro statunitense ha utilizzato una parola coniata per la prima volta in Canada nel 1947, per indicare le persone che non solo lavorano non stop, ma che sono proiettate quotidianamente in un’ottica legata al lavoro. Queste persone si chiamano workaholics, ovverosia malati di lavoro. I loro pensieri, le loro azioni, la loro giornata, le loro aspirazioni hanno come soddisfazione ultima il cosiddetto fatturato.
Questo orientamento strettamente pragmatico, che guarda al valore della persona identificandola solo con il risultato del suo successo, non sembra però sovrapporsi perfettamente al concetto di felicità anche se porta a una soddisfazione temporanea grazie all’accumulo di beni. Il traffico frenetico, le interazioni verbali affrettate, la laconicità negli scambi interpersonali, conducono sicuramente a un’efficienza lavorativa che, però, alla fine della giornata, ti svuota di significato. L’apnea di tempo di cui i Milanesi sembrano soffrire parrebbe in netto contrasto con quella che possiamo definire come felicità: cioè la disponibilità di tempo che abbiamo a disposizione per noi stessi.
La lezione del Bhutan, che utilizza ironicamente la parola Fil (Felicità interna lorda) invece di Pil, per indicare lo stato di soddisfazione dei cittadini, non deve farci sorridere di sufficienza. I criteri presi in considerazione per decretare come si vive in un certo luogo non sono infatti arbitrari né, tantomeno, evanescenti, ma misurano la qualità dell’aria, la salute dei cittadini, l’istruzione e la ricchezza dei rapporti sociali. Con un Pil pro capite di soli 2088 dollari annui, il Buhtan è la nazione più felice del continente Asiatico, ma, soprattutto, l’ottava più felice al mondo. In Italia bisognerebbe forse cercare un equilibrio tra quella parte del sud della penisola che non apprezza eccessivamente l’etica del lavoro (e che possiamo identificare nella parola “Vediamo…”, a significare che ciò che si deve fare oggi rimane in sospeso e lo si farà chissà quando) e l’efficiente Milano, che, paradossalmente, sembra avere necessità di immergersi proprio nel sud Italia almeno una volta l’anno.
Solo in quell’altrove, che molto spesso coincide con le spiagge della Sardegna e con la loro indolenza caraibica, i Milanesi sembrano ritrovare una dimensione umana del sé, che non hanno tempo di esplorare e godere durante gli altri 11 mesi di immersione totale nel lavoro.